A.C. 1737-A
Grazie, Presidente. La proposta di legge troverà il consenso del Partito Democratico. Si tratta di una iniziativa utile, che favorisce la divulgazione e la costruzione di una rinnovata coscienza, una più estesa coscienza, sul tema delle periferie urbane e sull'analisi dei processi sociali, dei fenomeni culturali, delle trasformazioni urbane che sono coinvolte dalla trasformazione delle periferie urbane e anche da una nuova questione urbana, che, in definitiva, racchiude il tema della periferia.
Non è più tempo di pensare alle periferie come a un qualcosa di separato e distante dalle città, di esterno alle stesse. Quando parliamo di periferie, dobbiamo, ormai da diverso tempo, da diversi anni, renderci conto che parliamo di una questione urbana in sé, anche perché il corpo delle città, fisicamente inteso, si è venuto trasformando in modo tale che oggi non è più un corpo compatto, che può essere letto per stratificazioni geografiche o, addirittura, per stratificazioni sociali definite.
La cosiddetta globalizzazione, o comunque l'avanzare di processi molto intensi dal punto di vista delle trasformazioni sociali, dei costumi, dell'immigrazione, ha reso oggi le città in tutto il mondo, e anche nel nostro Paese, dei corpi mobili che si sono venuti disgregando, spappolando, decomponendo, in modo tale che noi possiamo parlare di periferia anche per alcune parti dei centri storici o possiamo individuare delle zone di pregio, di livelli di vita accettabili o qualificati, anche in zone geograficamente intese di periferia. Quindi, un tessuto che si è venuto lacerando, soprattutto parallelamente alla decadenza di quelli che un tempo chiamavamo ceti medi, cioè di quello strato sociale che agiva un po' da cuscinetto e da equilibratore delle differenze sociali tra i molto ricchi e i molto poveri, che faceva anche un po' da collante della società.
Questa dimensione si è progressivamente assottigliata, in alcuni casi è definitivamente scomparsa. Le dialettiche sociali sono diventate più stringenti, più forti e più nette, quindi questo ha avuto una conseguenza anche sull'organizzazione delle città, che non hanno neanche più spazialmente dei corpi e delle zone definite. Oggi parlare di zone industriali, di zone commerciali, di zone residenziali probabilmente non ha neanche più senso, perché le stesse dimensioni funzionali delle attività si sono mescolate.
Quindi, abbiamo a che fare con città che sono dei corpi appunto mobili, delle polpe in continua rimodellazione. Questo rende più complessa e più difficile l'analisi stessa del fenomeno della periferia. Naturalmente, il tratto generale in molti casi è rimasto, questo non va occultato. Gran parte del disagio è lontano dai centri storici, perché i centri storici propriamente intesi sono le zone di maggiore pregio e di maggiore vitalità economica, dove più profondamente agiscono gli interessi, dove si insediano le parti sociali con maggiori possibilità, dove l'elemento comunitario è ancora più forte, caratterizzato anche da una tradizione dei segni, dal fatto che esiste la storia.
In periferia spesso la storia non esiste, se non andandola a cercare e cercando di valorizzarla, come anche la proposta di legge prevede, perché esiste, ma spesso è nascosta, occultata dalla violenza con la quale lo sviluppo moderno l'ha coperta, la violenza dello sviluppo urbanistico, anche di una certa modalità costruttiva, industriale, che nel Novecento si è affermata per la necessità di costruire rapidamente per il forte inurbamento. Certo, non è stata spesso a guardare con grande attenzione gli aspetti estetici delle trasformazioni, gli aspetti architettonici dell'immagine urbana.
Quindi, per tornare al punto, questa nuova condizione ci chiama la necessità di nuovi strumenti di lettura e di indagine. Non a caso, la Commissione d'inchiesta parlamentare, che sta svolgendo un ruolo importante sotto la direzione del presidente Battilocchio, che ringrazio, è uno di questi strumenti che il Parlamento si è dato, e la proposta di legge ne aggiunge un altro. Però, rapidamente, voglio fare una riflessione su alcuni punti. La prima questione riguarda il tema dei diritti di cittadinanza.
Oggi si può dire, senza tema di essere smentiti, che un ragazzo, un cittadino che nasce in periferia o che nasce in un'area interna e vive tutta la sua vita in quel luogo, spesso e volentieri non ha la possibilità, nel corso della sua vita, di godere degli stessi diritti di cittadinanza e delle stesse opportunità di un cittadino che nasce in una zona o in un'area più fortunata del territorio, in un centro storico o in una zona di maggiore sviluppo, di maggiore pregio qualitativo in termini di servizi, trasporti e di tutto il resto. C'è, quindi, una disparità strutturale che ormai si è determinata nei diritti di cittadinanza, a seconda di dove si vive e di dove si svolge la vita dei cittadini.
Questo inficia il principio fondante della Costituzione che mette i cittadini tutti di fronte alle stesse opportunità, o che comunque agisce perché tutti possano esercitare i propri diritti in maniera uguale e paritaria. C'è, quindi, un elemento costituzionale sul quale, a mio modo di vedere, a nostro modo di vedere, si deve intervenire, da un punto di vista dei principi - sono poi i principi che regolano l'attività delle pubbliche amministrazioni, dallo Stato fino agli enti locali -, per segnalare questo aspetto. Questo aspetto ha uno spazio nella Costituzione che può essere colmato.
In particolare, riguarda l'articolo 44 della Costituzione, che è un articolo inserito dai padri costituenti perché, all'epoca, si colmasse il grande divario tra città e campagna e si intervenisse con una riforma agraria per superare in parte questo divario, soprattutto tra i cittadini che vivevano le città e quelli, in Italia tantissimi, che vivevano nelle comunità montane. L'articolo 44 interveniva esattamente su questo punto. Questa esigenza non dico che sia stata completamente superata, ma in parte è stata colmata dalle evoluzioni avvenute nel corso dei decenni del dopoguerra, mentre se ne è affermata un'altra, esattamente quella del rapporto tra città e periferia.
Quindi, l'inserimento della periferia e delle aree interne nella Costituzione come condizione potenzialmente divisiva del rapporto tra i diritti di cittadinanza è un elemento che va colmato. Per questo, abbiamo presentato una proposta di legge, che è in discussione nella Commissione affari costituzionali, che mira, attraverso un'operazione “cacciavite”, come si dice in gergo - cioè, una piccola correzione dell'articolo 44 - a colmare questo aspetto.
Un secondo aspetto importante riguarda il governo delle grandi città, degli aggregati urbani e delle città in generale, che possano venire incontro a quella che ho definito una “questione urbana”, cioè gli strumenti operativi, amministrativi, gli ordinamenti. Noi stiamo discutendo - qui lo dico senza polemica o, perlomeno, non con l'asprezza della polemica di questi giorni, ma sicuramente con un elemento critico - dell'autonomia differenziata. Il dibattito sugli enti locali, sulla pluralità dei territori e delle tradizioni nel nostro Paese, da ormai trent'anni, si è concentrato sul tema delle regioni, con un dibattito infinito, in cui si è detto di tutto, ma con pochissimi cambiamenti e adesso approda a una soluzione che noi non condividiamo e che riteniamo, anzi, pericolosa e divisiva per l'unità del Paese.
Il punto fondamentale è che si è discusso di regioni, ma non si è discusso delle città: il pluralismo territoriale italiano è un pluralismo secolarmente caratterizzato dalle città, non dalle regioni, cioè dalle differenti tradizioni che si sono determinate, dal Medioevo in poi, sulla costituzione di identità urbane che sono cresciute, si sono sviluppate e sono fiorite nella nostra Penisola e che, ancora, sono caratterizzate da questo. Quindi, noi abbiamo il problema di dare a questa varietà una risposta. Abbiamo ancora le città che vengono governate tutte con lo stesso tipo di ordinamento. Naturalmente, sarebbe impossibile articolare diverse forme di ordinamento per tutte le migliaia di città italiane, ma mi riferisco soprattutto alle grandi conurbazioni, alle grandi città, che hanno caratteristiche mondiali e metropolitane, vocazione mondiale e che, in Italia, sono sostanzialmente tre e potremmo definire, per certi aspetti, addirittura tre capitali, di tre diverse nature del nostro Paese: Roma, Milano e Napoli. Noi abbiamo tre città di grande forza mondiale, di grande vocazione mondiale. Abbiamo tre città che sono conurbazioni metropolitane che vanno oltre i propri confini comunali e aggregano intorno molto di più di quelli che sono i loro confini comunali: quindi Roma, Milano e Napoli che, però, sono governate ancora con gli strumenti della legge fondamentale degli enti locali. Qui bisogna intervenire, non ci si può limitare a quello che la legislazione italiana ha prodotto con la legislazione sulle città metropolitane, che non sono mai state realizzate, peraltro, come enti elettivi diretti. Bisogna dare a queste città - area di 5 milioni di abitanti nel caso di Roma, di 3 milioni e mezzo nel caso di Napoli e di altrettanti nel caso di Milano - strumenti fortissimi di governo, strumenti rapidi, anche legislativi, di intervento veloce e sistematico, di decentramento efficiente all'interno di queste, per poter consentire loro non soltanto di sviluppare le proprie potenzialità, ma anche di intervenire con più efficacia nelle situazioni di degrado. Questo è un tema urgentissimo che, tra l'altro, ci metterebbe a pari ruolo con il resto d'Europa, dove le grandi città e le grandi capitali hanno tutte regimi speciali. In tutta Europa pensiamo alla Germania, che ha alcune città che sono, praticamente, regioni: sono dei Länder, così come vengono chiamate in Germania. Ora, non si tratta di copiare modelli esterni, ma noi questo problema lo abbiamo e non lo abbiamo mai sostanzialmente affrontato. Questo è un punto essenziale, fondamentale per affrontare il tema delle grandi contraddizioni metropolitane e, in primo luogo, delle periferie, dove le risorse arrivano sempre tardi, dove le soluzioni arrivano sempre tardi, dove le decisioni arrivano sempre con grandi difficoltà e, quindi, con poche risposte, con poche risorse, con poca efficienza amministrativa, i processi degradano sempre di più.
Il secondo aspetto è quello degli strumenti urbanistici. Sia chiaro: io non credo che l'urbanistica risolva tutto, quando si parla di periferia. Non possiamo scadere in una lettura monotematica, il tema della periferia ha una complessità più ampia - mi interrompa, Presidente, quando vede che sto esagerando con il tempo -; non credo che l'urbanistica risolva tutto, la dimensione della periferia è una dimensione a 360 gradi, molto più complessa. Tuttavia lo strumento urbanistico, la regolazione del governo del territorio, dello spazio fisico, che diventa spazio umano, dell'uso del suolo e dell'uso della terra è fondamentale, perché tutto comincia con la terra e tutto finisce con la terra: a seconda di come si organizza lo spazio, abbiamo un'organizzazione della vita civile, della vita economica e delle modalità - anche di trasformazione dell'immaginario -, che un individuo acquisisce dal momento della nascita fino a quello della dipartita da questa vita.
Quindi, il fatto di avere, in Italia, strumenti urbanistici molto vecchi e molto confusi, in cui si sovrappongono competenze diverse e vi sono elementi di difficoltà, comporta che poi tali elementi di criticità dalle amministrazioni vengono superati con farraginosità e in alcuni casi, a volte, addirittura - quando le cose non funzionano - con la corruzione, che diventa il canale attraverso cui qualcuno spera sempre di recuperare i ritardi. Sono, quindi, fondamentali nuovi strumenti. Noi abbiamo bisogno - in questo, vede, torna il tema dell'autonomia differenziata - di una legge di princìpi generali, che dia la possibilità di una regolamentazione complessiva alla trasformazione del territorio e della Penisola, naturalmente lasciando alle regioni - come già è scritto in Costituzione - ampi spazi di autonomia e di interpretazione dei princìpi. Una Penisola come la nostra, con il nostro territorio, ha bisogno di un indirizzo generale, che possa cucire le diversità e dare un tratto comune e unitario allo sviluppo di una Penisola difficile e quindi anche offrire al governo delle città strumenti utili, capaci di intervenire sulle difficoltà, sui cambiamenti che una città vive e che sono più complessi sempre nelle periferie.
Il terzo aspetto, naturalmente, sono gli investimenti. Ora stiamo attraversando la fase del PNRR con il programma di Next Generation EU: anche qui c'è un elemento critico, che noi offriamo alla discussione per come questo programma si è snaturato nella farraginosità delle procedure con l'arrivo del nuovo Governo e con una centralizzazione delle procedure, quando, invece, aveva una natura molto più rapida, veloce e articolata - pure nelle sue procedure -, ma che era già partita e che stava producendo risultati. Il cambiamento delle procedure ha rallentato, soprattutto nei programmi per le periferie, la resa dei risultati e la possibilità di spendere molte risorse.
Ma noi non avremo sempre un Next Generation EU, non ci sarà sempre il PNRR: bisogna entrare in una fase ordinaria di risorse per le città e questo comporta anche un intervento su alcuni aspetti di fiscalità generale che, in questo caso, però è specificatamente indirizzata alla fiscalità urbana, cioè del chi paga le risorse che servono per valorizzare gli spazi pubblici, per creare i trasporti, per creare la città pubblica, per acquisire le aree necessarie per erogare i servizi - in primo luogo, per esempio, l'edilizia residenziale pubblica, ferma al palo da più di 40 anni -. Queste risorse da dove le prendiamo? Dalle tasche dei cittadini, dalle tasse, in generale? Da finanziamenti astratti? No, queste risorse possono venire dalle trasformazioni che si determinano all'interno delle città, attraverso un giusto ed equilibrato intervento di prelievo dalla rendita urbana, che si arricchisce notevolmente all'interno delle città, perché le città, nel loro cambiamento, creano ricchezza. Questa non può essere soltanto riversata nelle tasche di chi trasforma privatamente i luoghi, ma deve essere anche, in parte, messa a disposizione della collettività, attraverso adeguati versamenti nelle casse pubbliche, con contributi adeguati e che siano in linea - anche in questo caso - con i livelli europei, che possano essere utilizzati per realizzare i servizi, espropriare le aree, fare tutto quello che serve per rendere le nostre città più adeguate, più ricche e dotate dei servizi necessari. Da questo punto di vista, voglio dire una cosa: il contributo che la rendita delle trasformazioni urbane versa alle casse pubbliche in Italia è, mediamente, pari al 5 per cento, e dico una cifra esagerata. Nel resto d'Europa si arriva a livelli molto più alti: dal 20, al 30, al 40 per cento. Sono risorse che vengono destinate alla collettività, attraverso la messa a disposizione delle risorse pubbliche, che poi vengono utilizzate - attraverso opere pubbliche, servizi, appalti - per realizzare tutto quello che serve all'interno delle città. Questo è un punto molto importante e riguarda proprio gli aspetti di fiscalità urbana.
Infine, c'è un tema che riguarda il cambiamento della qualità sociale di alcuni quartieri e di alcune realtà di periferia. Qui c'è stato - e c'è ancora, in parte - un dibattito confuso quando si parla di sicurezza urbana e di fenomeni di degrado nei grandi quartieri popolari, soprattutto quelli nati negli anni Ottanta, con i grandi interventi di edilizia residenziale pubblica: questo, in parte, è vero.
Si fanno spesso tanti nomi, si va da Caivano a Tor Bella Monaca a Corviale e chi più ne ha più ne metta. Ma anche qui, attenzione: il problema non sono le forme. Le forme dei luoghi, degli edifici e dei complessi sono importanti, perché, se sono stranianti dell'individualità umana, possono portare elementi. Il tema importante è la qualità sociale che si mette in certi luoghi, ed è un aspetto che viene spesso dimenticato, ossia che, intorno a certi interventi, in un Paese che, forse, negli anni ottanta, è stato in grado di dare una parziale risposta al grande tema abitativo, sono state tirate fuori da tante situazioni di degrado assoluto migliaia e migliaia di famiglie, dandogli la possibilità di avere una casa. Parliamo del diritto alla casa, il quale non è sancito, neanche questo, dalla Costituzione, mentre è codificato in sede europea, in tutti i trattati possibili e immaginabili. Come detto, invece, nella Costituzione italiana il diritto alla casa non esiste, e anche questo va colmato.
Se questo Paese - dicevo - è stato in grado di fare ciò, oggi nel corso del tempo non è stato più in grado di mantenere questo e di portare intorno a questi grandi complessi che ho descritto e che abbiamo visto nelle nostre uscite di indagine, tutti i servizi che sarebbero occorsi, in termini non solo di trasporto, perché l'isolamento delle persone intanto si vince con la possibilità di muoversi più facilmente, ma anche di servizi culturali e sociali, di tutto quello che, attraverso l'elemento collettivo, consente di superare l'elemento dell'isolamento, che in una città nuova che avanza verso il territorio, com'era negli anni passati, evidentemente era un tema centrale.
Oggi, tutto questo va coadiuvato e coordinato con una idea di città dove i perimetri non si ampliano, e questo è un grande problema - e lo voglio ricordare qui -, perché parliamo di periferia, cioè parliamo di città intorno. Se non dobbiamo e non vogliamo più consumare suolo, contenendo l'espansione delle città, nello stesso tempo siamo consapevoli che la crescita demografica andrà aumentando nel corso dei prossimi anni, perché cambia il mondo, perché le regioni, vicine all'Italia, nel Mediterraneo, in Africa e nei paesi dell'Asia, che si sposteranno con milioni di persone verso l'Europa, saranno demograficamente crescenti.
Come possiamo affrontare questa drammatica contraddizione, se non con un'idea completamente diversa di città? Cosa che, per l'Italia, è per certi aspetti drammatica. Infatti, siamo un Paese che ha un'idea abitativa di insediamento piccolo, basso e diffuso, perché siamo un Paese contadino, che viene da un'idea e da una tradizione familiare di vicinanza alla terra. Invece, dovremmo abituarci a città che saranno diverse.
Qui c'è una grande riconversione culturale da operare, che non è soltanto amministrativa, ma è proprio un'idea filosofica dell'idea di città, è un'idea mentale di come staremo, e con quali forme, all'interno delle città.
Mi pare importane sottolineare tutto questo nel momento in cui al nostro lavoro si aggiunge uno strumento di riflessione e di sensibilizzazione diffusa, attraverso l'istituzione delle iniziative previste da questa legge, con una giornata speciale, perché, sul tema della periferia, c'è bisogno di aumentare e migliorare la pluralità dei nostri strumenti di lettura, e di migliorare - e, a volte, anche di rivoluzionare - i nostri sistemi di intervento, anche attraverso importanti interventi sul corpo legislativo, sulla Costituzione e sulle grandi leggi organiche che ci consentano di affrontare la grande questione urbana di questo secolo, che non è soltanto il tema della periferia, non è soltanto il tema dell'intervento su alcuni quartieri, ma è l'idea di come dobbiamo dimensionarci all'idea di nuove città, di una nuova questione urbana che è una questione del nuovo secolo, che è completamente diversa da quella che abbiamo alle nostre spalle, da come le nostre città sono cresciute, dalla prima rivoluzione industriale in poi.