Grazie, Presidente. Oggi, ci troviamo di fronte a uno di quei momenti in cui le parole non possono essere semplici strumenti di retorica o di convenienza politica. Oggi, le nostre parole devono assumere il peso e la responsabilità di una battaglia, che coinvolge ognuno di noi: la lotta contro la violenza sulle donne.
Parlare di violenza contro le donne significa, innanzitutto, riconoscerla per quella che è: un fenomeno strutturale, una ferita aperta nel tessuto della nostra società, un'ingiustizia profonda, che interroga le nostre coscienze, una violazione non solo i diritti umani, ma del senso stesso di umanità, perché, ogni volta che una donna subisce violenza, è la nostra collettività a perdere.
Questo tema non può essere confinato al campo delle politiche di genere o della solidarietà femminile. È una battaglia che chiama in causa tutti noi, uomini e donne, giovani anziani, perché ciò che è in gioco non è solo la libertà femminile, ma è l'equilibrio stesso delle relazioni umane e il progresso della civiltà. Come rappresentante delle istituzioni, come cittadino, come uomo sento il dovere e, sì, l'onore - idealmente universale, purtroppo assai poco diffuso - di schierarmi al fianco delle donne in questa battaglia. Combatterò contro la violenza: non è un atto di generosità né un gesto eroico, è una questione di giustizia, di dignità e di impegno per un futuro migliore.
Eppure, in questo impegno collettivo, non possiamo ignorare quanto sia ancora fragile la coerenza istituzionale. Lo dico in modo molto educato al Ministro Valditara: è inaccettabile, sì, inaccettabile che, persino in un contesto in cui, in politica, si celebra la forza e l'affermazione femminile, si verifichino atteggiamenti e dichiarazioni che sembrano voler spostare il focus del dibattito; invece di affrontare con serietà le radici della violenza, sceglie di rifugiarsi in letture giustificazioniste o di cercare nemici comodi su cui riversare la colpa. Questi atteggiamenti non solo tradiscono una superficialità pericolosa, ma rischiano di alimentare una narrazione distorta e divisiva, lontana dalla realtà e dalle vere responsabilità. In quello stesso contesto, voglio invece fare eco alle parole profonde e toccanti del cardinale Matteo Zuppi, che ci ricordano una verità fondamentale: l'amore non è mai possesso, ma è sempre dono e rispetto. Queste parole, rivolte alla famiglia di Giulia Cecchettin, ci offrono una chiave di lettura universale per comprendere la radice della violenza di genere: il fallimento di riconoscere l'altro come persona libera, autonoma e degna di rispetto. Il possesso e il controllo sono l'antitesi dell'amore e il terreno fertile su cui la violenza cresce.
Tuttavia, dobbiamo essere onesti con noi stessi: non siamo ancora dove dovremmo essere. La violenza di genere non è solo un'ombra, che grava sulle singole vittime, ma è il riflesso di una cultura patriarcale, ancora troppo radicata; è il sintomo di una società che, nonostante i progressi, non ha ancora saputo liberarsi di disuguaglianze profonde, di ruoli imposti, di stereotipi, che limitano o soffocano.
Come uomini, dobbiamo anche interrogarci circa i privilegi di cui godiamo in quanto tali: uno di questi è proprio il non essere costretti a confrontarci, ogni giorno, con la violenza di genere o con le disuguaglianze, che le donne vivono sulla loro pelle; è il privilegio di non dover fare i conti con la realtà. Questo privilegio, in realtà, è un limite: non riconoscere che la violenza sulle donne ci riguarda, significa accettare, implicitamente, che i rapporti di forza restino inalterati. Invece, dobbiamo sentirci responsabili, non perché sia una questione di dovere morale, ma perché il benessere delle donne è il benessere di tutta la società.
Per sconfiggere questa violenza, dobbiamo avere il coraggio di affrontare le sue radici. Non basta condannare i singoli episodi, per quanto brutali e ingiusti essi siano. Dobbiamo intervenire là dove la violenza trova terreno fertile: nell'asimmetria dei rapporti, nella disparità economica, nella mancanza di condivisione dei carichi familiari, nell'educazione che perpetua i modelli sbagliati.
La questione economica, ad esempio, è fondamentale. La violenza economica priva le donne della possibilità di essere libere, lasciandole intrappolate in relazioni di dipendenza. È nostro dovere potenziare strumenti come il reddito di libertà, offrire incentivi alle aziende che assumono vittime di violenza e ridurre il cuneo fiscale per quelle donne che, con coraggio, scelgono di ricominciare; non si tratta solo di politiche sociali, ma di una vera e propria lotta per l'emancipazione.
Mi si lasci ricordare che il percorso di emancipazione femminile, al netto del tema della violenza, passa però anche necessariamente per politiche sul lavoro e sulla famiglia: per esempio, come non ricordare il tema del gender pay gap, oppure la necessità di congedi parentali, o ancora la necessità di politiche di welfare che permettano di conciliare la vita familiare con quella lavorativa, come nel caso degli asili nido. Mi si permetta, per esempio, una punta di orgoglio in questo richiamo, provenendo da una regione, come l'Emilia-Romagna, della quale saluto il neo presidente eletto, Michele De Pascale (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista); una regione in cui il welfare è sempre stato all'avanguardia e dove, non a caso, l'occupazione femminile è decisamente più alta che in altre regioni. La questione economica, la politica sulla famiglia e, poi, la sfida più grande, quella delle trasformazioni culturali. Non è una strada semplice. I cambiamenti profondi richiedono tempo, ma soprattutto visione e determinazione. Una società che vede ancora il lavoro domestico e la cura dei figli come compiti femminili è una società che non ha capito quanto la vera parità sia una ricchezza per tutti. Una società che non sostiene le donne economicamente, che tollera molestie sui luoghi di lavoro e che lascia sole le caregiver è una società che accetta, magari inconsciamente, la violenza come parte del suo sistema.
Non possiamo accettare che le donne continuino a portare il peso di una cultura che le rende vittime due volte: una prima volta per la violenza subita e una seconda volta per l'indifferenza o la lentezza con cui le istituzioni rispondono.
Nei tribunali, dove dovremmo trovare giustizia, quante volte accade il contrario? Quante volte una donna non è protetta, ma giudicata? I processi si trasformano in un esame delle sue scelte e della sua moralità, come se il comportamento della vittima potesse giustificare l'azione del carnefice. Come non osservare che il sacrosanto principio di presunzione di innocenza in capo all'imputato venga, di converso, avvertito come un principio di menzogna in capo alla vittima? Questa è una forma di violenza e di vittimizzazione secondaria, che non possiamo più tollerare. Tuttavia, è qui che possiamo intervenire con forza, garantendo che la giustizia non si trasformi in ulteriore sofferenza. La riforma dei tribunali e la formazione obbligatoria degli operatori del diritto devono essere priorità assolute; giudici, avvocati, assistenti sociali e Forze dell'ordine, tutti coloro che operano in questo ambito devono essere preparati a trattare con sensibilità e rispetto i casi di violenza di genere, perché la giustizia non sia solo un'enunciazione, ma una realtà concreta per le vittime. Eppure non è tutto buio. Negli ultimi anni, sono stati fatti passi avanti importanti: il potenziamento dei centri antiviolenza, la legislazione sul revenge porn e il diritto di libertà per le vittime sono segnali di una consapevolezza crescente, ma che non basta.
Serve una visione sistemica, un impegno che parta dall'educazione nelle scuole fino alla tutela delle vittime nei tribunali, come dicevamo prima, ma soprattutto serve un cambio di prospettiva. Dobbiamo fare della lotta alla violenza una priorità dell'intera società, non solo il 25 novembre, ma 365 giorni all'anno, come ci ricordano le donne della Conferenza delle donne democratiche nella loro recente campagna. Solo coinvolgendo ogni cittadino, solo educando le nuove generazioni al rispetto e alla parità, solo lavorando insieme potremo sradicare davvero questa piaga.
È una sfida che possiamo vincere se ognuno di noi farà la sua parte, e credo profondamente che sia possibile. Credo che il giorno in cui le donne non saranno più costrette a temere per la loro libertà, il giorno in cui potranno camminare sicure, lavorare senza subire discriminazioni, vivere senza paura, sarà il giorno in cui avremo davvero costruito una società giusta. Quel giorno non è ancora arrivato, ma può essere più vicino se oggi decidiamo di agire con responsabilità e con coraggio, perché combattere la violenza contro le donne non è solo un dovere, è una promessa che facciamo a noi stessi, alle nostre figlie e ai nostri figli, i quali devono trovare risposte e riflessioni nel luogo principe dell'educazione come la scuola.
È nelle scuole, è nelle aule dove crescono le nuove generazioni che possiamo seminare il rispetto e l'uguaglianza. Dobbiamo introdurre, infatti, nelle scuole di ogni ordine e grado programmi che educhino all'affettività e alla parità, che mostrino come la diversità di genere non sia una minaccia, ma una ricchezza. È attraverso questi percorsi che possiamo prevenire la violenza prima che si manifesti, che possiamo rompere la catena di pregiudizi che da generazioni limita le donne e distorce le relazioni tra i generi.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di questo impegno concreto da parte di tutte le forze politiche, ma anche della società civile, per garantire che ogni donna che subisce violenza possa trovare supporto immediato e che ogni aggressore venga punito con la massima severità. È nostro compito non solo, quindi, combattere la violenza, ma anche prevenire che essa si manifesti, educando al rispetto e all'uguaglianza fin dai primi anni di vita. La violenza maschile contro le donne, Presidente, è una violazione dei diritti umani che non possiamo più tollerare.
Il nostro impegno oggi deve essere, quindi, un impegno senza ritorno, per garantire che le generazioni future possano vivere in un mondo in cui nessuna donna debba temere per la propria sicurezza, per la propria dignità; in quel mondo che le donne per secoli hanno meritato, ma che non hanno mai avuto. A mia figlia, che ha 4 anni, alle mie nipoti, alle nostre figlie questo dobbiamo. Se non iniziamo ora, quando? Se non lo facciamo noi, chi lo farà.