La Camera,
premesso che:
in Italia la politica industriale ha seguito nel corso del tempo i cambiamenti economici, sociali, tecnologici, istituzionali che hanno attraversato il nostro tessuto produttivo, caratterizzandosi fino ai primi anni ottanta del secolo scorso, per un approccio interventista, basato su un esplicito sostegno statale alle imprese considerate strategiche o a settori nascenti, in un periodo di rapida industrializzazione, un approccio che dalla metà degli anni ottanta, in un contesto internazionale contraddistinto dall'aumento degli scambi commerciali e dalla crescente liberalizzazione dei mercati, ha cambiato paradigma, con l'intervento pubblico che si è principalmente limitato a lasciare operare i meccanismi di mercato con l'obiettivo di sfruttare i guadagni dovuti alla specializzazione produttiva e al commercio, alla riduzione dei costi di transazione e all'efficiente riallocazione degli input tra settori e imprese, anche in connessione con la nascita del Mercato unico europeo;
i fenomeni della globalizzazione e dell'innovazione/rivoluzione tecnologica, a partire dalla fine del secolo scorso hanno determinato in molte economie avanzate non solo indubbi miglioramenti nel benessere dei cittadini ma anche un aumento delle disuguaglianze, cui le politiche pubbliche sono chiamate a dare una risposta adeguata. Inoltre, gli effetti sempre più visibili del cambiamento climatico e il riemergere dell'instabilità geopolitica hanno portato a un rinnovato interesse per le politiche industriali nei paesi avanzati, con l'obiettivo di promuovere, oltre che l'innovazione e la crescita dei sistemi economici, anche la coesione, la sostenibilità e la resistenza agli shock: la sfida consiste nel favorire la doppia transizione digitale ed ecologica, nel diversificare e proteggere le catene di fornitura, in particolare di tecnologie avanzate, anche con misure volte a incoraggiare la reindustrializzazione e il reshoring delle attività del settore manifatturiero, cercando di preservare i benefici dell'integrazione dei mercati, particolarmente rilevanti per un'economia aperta agli scambi internazionali come quella italiana;
come rilevato nell'indagine conoscitiva effettuata in X Commissione affari produttivi, nonostante le sue potenzialità, l'IA rimane ancora scarsamente utilizzata dalle imprese italiane, soprattutto se poste a confronto con i Paesi del Nord Europa, del Nord America e con la Cina: stando ai dati raccolti nel corso dell'indagine conoscitiva, infatti, il 61 per cento delle grandi imprese ha all'attivo almeno al livello di sperimentazione, un progetto di IA, ma il dato scende al 18 per cento tra le PMI. Posto che una delle ragioni della stagnazione economica dell'Italia, negli ultimi trent'anni almeno, è dovuta alla scarsa crescita della produttività, colmare il ritardo e sfruttare le potenzialità dell'intelligenza artificiale sono quindi ritenuti una straordinaria opportunità. Nel nostro Paese l'IA generativa potrebbe giocare un ruolo chiave anche per mantenere alto il livello di produttività e benessere in un contesto di generale invecchiamento della popolazione. Già oggi in circa 40 province in Italia il numero dei pensionati è maggiore del numero dei lavoratori ed entro il 2040 l'Italia perderà circa 3,7 milioni di occupati: un numero di lavoratori che, con gli attuali livelli di produttività, contribuiscono alla produzione di circa 267,8 miliardi di valore aggiunto. Di qui la prospettiva, anzi la necessità di impiegare le nuove tecnologie anche per mantenere invariato lo stesso livello di benessere economico. L'Italia non potrà capitalizzare le opportunità fornite dall'intelligenza artificiale senza un impegno attivo e proattivo. Senza di esso, rischieremmo di rimanere indietro nella gara internazionale. Per sfruttare i vantaggi dell'IA è indispensabile adottare un approccio strutturato che promuova la diffusione delle competenze digitali e l'adozione tecnologica nelle aziende, elementi le chiave per questo nuovo orizzonte. In particolare, promuovere la digitalizzazione delle imprese, soprattutto quelle di piccola e media entità, è vitale per facilitare l'implementazione di soluzioni basate sull'IA, migliorando così l'efficienza stesse. La velocità della sua diffusione e le potenzialità dei suoi utilizzi sono straordinari, e trovano applicazione attraverso lo sviluppo verticale nei differenti ecosistemi industriali europei e nel settore pubblico. Vanno però attentamente monitorati gli effetti che questa trasformazione tecnologica potrà avere soprattutto su settori costituiti in buona parte da PMI e da imprese artigiane, e sulle attività del settore terziario (dal commercio alla filiera del turismo) e delle professioni: dato il contesto, che è quello di una trasformazione del mercato, in corso da anni, determinata fondamentalmente dall'E-commerce e dalle Piattaforme Digitali, con una straordinaria concentrazione nelle mani di pochi colossi che hanno riscritto le regole del commercio e dei processi produttivi, è difficile immaginare che le imprese di piccola dimensione siano in grado di rispondere alla concorrenza di multinazionali in grado di investire enormi capitali in questo ambito. La risposta a questa inedita trasformazione deve essere sistemica, con politiche industriali comunitarie dirette a ridurre, in questo ambito, la concorrenza tra imprese europee per facilitare lo sviluppo di tecnologie continentali e ridurre i costi, realizzando un riequilibrio nello sviluppo tecnologico di A.I.;
altro aspetto da monitorare è il rischio di una sostituzione di alcune attività lavorative ripetitive di media e bassa complessità e di un aumento delle diseguaglianze tra lavoratori che hanno dimestichezza con le nuove tecnologie e coloro che ne sono privi, ma – nel quadro macroeconomico – intere catene del valore e settori potrebbero essere diversamente localizzati. È evidente il pericolo che, in tutti i settori (da quello industriale al manifatturiero, per arrivare al commercio, al turismo e ai servizi), si verifichino una perdita di qualità, una compressione dei salari, una riduzione delle tutele, causate dalla subordinazione alle piattaforme digitali, che potranno determinare ritmi di lavoro, retribuzioni, continuità occupazionale. È dunque necessario stabilire regole e limiti alla loro pervasività;
per ricostruire un efficace sistema di politiche industriali che sia in grado di affrontare le sfide delle due transizioni gemelle e del nuovo contesto geopolitico occorre in primo luogo partire dalla dimensione europea. La posta in gioco è, infatti, la leadership tecnologica che determinerà non solo gli equilibri geopolitici dei prossimi anni ma anche la capacità dei sistemi economici di gestire le sfide della digitalizzazione e della transizione verso la decarbonizzazione offrendo al tempo stesso risposte adeguate ai nuovi bisogni delle società avanzate. Un nuovo protagonismo dell'Europa appare la condizione minima per sostenere una industria europea in grado di competere nella nuova globalizzazione dominata dai giganti americani e cinesi. La costruzione di un nuovo sistema di regole e governance condivise rappresenta, inoltre, la barriera necessaria per evitare che la ripresa di politiche industriali nazionali rallentino il processo di integrazione dell'industria europea favorendo spinte sovraniste che oggi appaiono non solo inefficaci ma anche dannose;
nella piena consapevolezza della necessità di aggiornare l'impostazione delle politiche comunitarie al nuovo contesto, in questi ultimi anni la Commissione europea ha fortemente rafforzato il quadro regolatorio e programmatico sui principali temi della politica industriale esprimendo una visione di medio lungo termine sui principali driver di trasformazione del sistema economico e sociale ma è rimasta molto debole sulla capacità reale di accompagnare e sostenere queste trasformazioni. Sul piano programmatico sono stati definiti obiettivi molto ambiziosi in materia di transizione digitale (digital compas), di transizione ambientale (fit for 55) cui si sono aggiunti gli obiettivi di autonomia strategica nella importazione di materie prima (row material act) e di sicurezza degli approvvigionamenti critici (chips act). La realizzazione di questi obiettivi richiede enormi investimenti in nuove tecnologie e, nel breve periodo, anche un potenziamento della capacità industriali in settori chiave come batterie, semiconduttori, impianti per le rinnovabili sistemi di Tlc abilitanti il 5g dove il livello di dipendenza dalle importazioni, in particolare dalla Cina, rischia di penalizzare prospettive di crescita e di occupazione;
il Presidente Draghi, nell'ambito dello studio commissionato dalla Presidente Von Der Layen sulla competitività dell'industria europea, ha stimato un fabbisogno di investimenti per l'Unione europea intorno ai 500 miliardi di euro annui necessari per affrontare le due transazioni. Per finanziarli, serve un grande volume di risorse pubbliche e private, attraverso una governance economica che apra più spazi alle politiche nazionali di investimento, preveda strumenti comuni permanenti e un bilancio UE più ambizioso per indirizzare verso l'economia reale europea e la transizione equa, verde e digitale una quota maggiore dei 33 mila miliardi di euro di risparmi privati europei. Un analogo esercizio realizzato da uno studio RSE/Confindustria per l'Italia stima il fabbisogno di investimenti per la realizzazione del PNIEC nell'ordine di 1000 miliardi di euro nei prossimi 6 anni. In funzione di questi obiettivi è possibile di individuare i 4 pilastri della nuova politica industriale europea:
rafforzamento della capacità produttiva europea nei settori strategici per la transizione ambientale ed energetica e sostegno alla adozione di tecnologie green nei settori più tradizionali;
potenziamento della ricerca nei settori strategici per la transizione digitale con particolare attenzione agli sviluppi potenziali dell'intelligenza artificiale;
riduzione della dipendenza strategica dell'Europa per l'approvvigionamento delle materie prime critiche e per alcune componenti industriali;
creazione di una infrastruttura europea di ricerca e trasferimento tecnologico che aumenti il potenziale di crescita dell'industria continentale e stimoli la crescita di startup innovative;
il tema delle risorse rappresenta naturalmente un nodo cruciale, anche in relazione alle politiche introdotte recentemente dagli USA attraverso il programma IRA e dalla Cina attraverso la strategia «made in Cina» ampliamento sovvenzionata con risorse statali: la risposta europea, in assenza di adeguati spazi di bilancio delle Commissione (ad oggi vale meno dell'1 per cento del PIL dei paesi aderenti rispetto al 25 per cento del bilancio federale americano), è stata affidata ad un allentamento delle regole sugli aiuti di Stato alimentando gli squilibri tra i diversi Paesi. Se si guarda agli aiuti di Stato autorizzati dalla Commissione europea da marzo 2022, nell'ambito del Quadro temporaneo di crisi, a gennaio 2023 il 53 per cento del totale degli aiuti è stato notificato dalla Germania, il 24 per cento dalla Francia e solo il 7 per cento dall'Italia, che ha spazi fiscali limitati: gli aiuti notificati dalla Germania e dalla Francia sono stati, rispettivamente, pari a 356 e 162 miliardi. Il sostegno al sistema produttivo autorizzato per l'Italia è stato più limitato e pari a 51 miliardi, riflettendo presumibilmente anche in questo caso la minore capacità fiscale del nostro Paese. Tale assetto evidenzia la necessità di costruire una capacità di risposta comune a partire da un potenziamento delle risorse a disposizione delle Commissione per il perseguimento degli obiettivi definiti nei diversi documenti programmatori e dalla creazione di un mercato unico finanziario che convogli il risparmio privato verso gli investimenti delle imprese;
come indicato dal rapporto Letta, per promuovere una progressiva espansione dei finanziamenti pubblici dell'UE a sostegno di una strategia industriale europea in grado di contrastare gli strumenti di pesante sussidio recentemente adottati da altre potenze globali, è precondizione necessaria una mirata e rigorosa applicazione degli aiuti di Stato a livello nazionale onde evitare distorsioni della concorrenza e assicurare parità di condizioni all'interno del mercato unico;
in questo contesto, l'Italia rimane la seconda potenza manifatturiera d'Europa, dopo la Germania. Nel 2023 la nostra industria manifatturiera ha generato un valore aggiunto di 328 miliardi, il 17,5 per cento del totale, e ha dato lavoro a 4 milioni di persone, il 15,3 per cento del totale. Sono numeri ridimensionati, rispetto a quelli del 2007, prima della grande crisi finanziaria. Ma sono superiori alla media europea;
la vocazione manifatturiera dell'Italia è un patrimonio da difendere e sostenere, non ci sarà nessuna nuova stagione di sviluppo se l'Italia si arrenderà alla deindustrializzazione. Negli anni 90 abbiamo privatizzato gran parte delle aziende pubbliche e abbandonato le politiche industriali. È merito del centrosinistra averle riproposte, prima con Industria 2015 di Bersani e poi con Industria 4.0 di Epifani e Calenda, che ha prodotto risultati positivi nella parte relativa ai crediti d'imposta per l'acquisto dei macchinari innovativi ma che si è rivelata insufficiente rispetto ai cambiamenti necessari al nostro sistema per assumere leadership industriale e tecnologica sui settori del digitale;
oggi siamo in una fase diversa: i salari fermi da trent'anni, la diffusione del lavoro povero e dequalificato, la stagnazione della produttività sono sintomi di un malessere profondo dell'economia. Parliamo di forza lavoro e imprenditoriale sempre più anziana e poco istruita; di un mercato dei capitali asfittico; di un capitalismo familiare troppo chiuso in sé stesso. Emergono i limiti del nostro modello di capitalismo, basato su milioni di microimprese che in molti casi arrancano, schiacciate dalla burocrazia e dalle difficoltà di accesso al credito, su quattro-cinque mila medie aziende competitive; su poche, pochissime grandi imprese, in gran parte a partecipazione pubblica: è tempo di migliorare questo modello, di rendere il sistema più dimensionato, resiliente, sostenibile;
la produzione industriale italiana, dopo gli anni di forte crescita successivi alla pandemia è infatti in calo costante, a settembre scorso secondo ISTAT c'è stato il ventesimo calo consecutivo, un calo dello 0,4 per cento rispetto ad agosto, una riduzione di quattro punti su base annua che nei primi nove mesi del 2024 presenta un bilancio in rosso del 3,4 per cento. Il livello del Pil italiano è rimasto stazionario rispetto ai tre mesi precedenti, registrando un risultato peggiore rispetto ai principali partner europei. Nei primi otto mesi del 2024, le esportazioni in valore hanno registrato una riduzione dello 0,6 per cento in termini tendenziali, riflettendo in particolare l'andamento negativo delle vendite verso i mercati Ue;
il riflesso delle difficoltà del sistema industriale italiano si ripercuote sul mondo del lavoro dove sarebbero oltre 120.000 i lavoratori a rischio, di cui 70.000 solo nell'Automotive, 25.459 nella siderurgia, 8.000 nell'energia (centrali a carbone e cicli combinati), 2.000 nel settore elettrico, 4.094 nella chimica di base, 3.473 nel settore del petrolchimico e in quello della raffinazione, 8.000 nelle telecomunicazioni, per non parlare delle gravi ricadute di tali crisi sulla filiera degli appalti;
alla luce di questi dati negativi, riteniamo una scelta assurda e gravissima per l'industria e i lavoratori del settore Automotive, il drastico taglio, per un totale di 4,55 miliardi di euro di definanziamento, al «Fondo Automotive», che era stato istituito con lungimiranza dal governo Draghi con una dotazione di 700 milioni di euro per il 2022 e di un miliardo di euro per ciascuno degli anni dal 2023 al 2030, per il sostegno e la promozione della transizione verde, della ricerca e degli investimenti nel settore Automotive, cui viene lasciata un finanziamento residuo complessivo di soli 1,2 miliardi di euro per il periodo 2025-2030, praticamente un azzeramento delle possibilità affrontare le sfide estremamente impegnative della transizione ecologica e digitale e della crescente competizione globale, che hanno invece bisogno di rilevanti politiche di sostegno;
i prezzi delle materie prime, gli alti costi energetici, lo stop della locomotiva tedesca, la concorrenza a internazionale, il calo dei consumi interni, il calo degli investimenti pubblici e privati e i pochi investimenti in ricerca e sviluppo, le delocalizzazioni di stabilimenti o di produzioni di interi settori produttivi, sono principali fattori che incidono sui costi e sulla competitività della manifattura italiana e che stanno delineando un rischio deindustrializzazione stante la continua erosione della base produttiva: secondo Confindustria, la CIG ordinaria nella manifattura è aumentata di circa il 50 per cento rispetto ai primi tre trimestri dello scorso anno. Il PMI manifatturiero, che si era avvicinato alla soglia neutrale in estate è poi tornato a scendere in ottobre e la fiducia delle imprese manifatturiere è debole da circa un anno;
le politiche industriali di cui abbiamo bisogno devono imparare dagli errori del passato ed essere orientate al futuro, all'innovazione, ai settori e alle tecnologie il cui sviluppo è ostacolato dai fallimenti di mercato. Devono essere strettamente connesse alla doppia transizione ecologica e digitale e favorire la creazione di lavoro di qualità, stabile e qualificato. E devono andare oltre la contrapposizione Stato-mercato novecentesca per ricercare una nuova complementarità tra intervento pubblico e iniziativa privata. Cambiare marcia vuol dire non limitarsi a dettare regole e tempi, ma costruire una vera politica industriale comune;
è necessario che si intervenga principalmente su quattro versanti: in primis quello della Governance delle politiche industriali attraverso la creazione di un Ministero per lo sviluppo sostenibile, di un Forum permanente per le politiche industriali, con la trasformazione di Invitalia in un soggetto attuatore delle politiche industriali, con la creazione di una Agenzia che coordini le partecipazioni pubbliche e poi, sul fronte dell'economia digitale, attraverso la creazione di un Ministero dell'innovazione e dello sviluppo tecnologico, con la previsione di una Legge annuale per il Digitale e il potenziamento e il coordinamento del network dell'innovazione;
il secondo sono gli incentivi pubblici, che vanno riorganizzati secondo criteri di selettività, condizionalità ambientali e sociali, con un orizzonte temporale almeno decennale e grande attenzione alla riduzione dei divari territoriali, a partire da quello tra centro-nord e Mezzogiorno: Gli studi condotti in Banca d'Italia sui risultati ottenuti da varie misure applicate nel nostro Paese presentano luci e ombre. Con riferimento al sostegno degli investimenti, le analisi empiriche disponibili indicano che gli incentivi automatici sono mediamente più efficaci di quelli assegnati a seguito di bandi competitivi. Le misure di incentivazione fiscale (attraverso crediti di imposta) agli investimenti delle imprese si sono rivelate molto efficaci per stimolare la crescita, l'ammodernamento del capitale produttivo e l'attività innovativa; esse però sono tendenzialmente contraddistinte da maggiori oneri per le finanze pubbliche e sono spesso caratterizzate da grandi difficoltà nel prevedere le adesioni alla misura e quindi monitorare per tempo la spesa relativa;
il terzo punto riguarda il ruolo dello Stato nell'economia. Si tratta di superare la contrapposizione tra Stato e mercato che ha caratterizzato il dibattito del 900 per affermare la necessità di una nuova complementarità tra intervento pubblico ed iniziativa privata. Nel contesto economico internazionale, non sembra, infatti, sufficiente un aggiustamento «spontaneo» guidato dalle sole forze del mercato così come appaiono del tutto inadeguate politiche di carattere protezionistico tendenti a difendere l'attuale specializzazione dimensionale e produttiva. La più recente letteratura economica in materia di politica industriale ha teso ad evidenziare, attraverso una solida base empirica, come gli investimenti pubblici, se bene indirizzati, non spiazzino gli investimenti privati ma al contrario costituiscono un volano per la competitività. Per realizzare queste condizioni serve non solo uno Stato che privilegi investimenti di lungo periodo e alla spesa corrente, ma anche uno Stato che sia in grado di individuare grandi missioni paese su cui orientare i fondi pubblici e promuovere l'attività delle imprese. La individuazione delle missioni consente di connettere la politica industriale alla risoluzione delle grandi questioni sociali ed ambientali del pianeta restituendo alla scienza ed alle imprese il compito di soddisfare i nuovi fabbisogni delle società avanzate legate a mega trend globali: il cambiamento climatico, l'invecchiamento della popolazione, la qualità della vita e la concentrazione delle persone nei grandi centri urbani. Per affrontare la nuova fase occorre quindi ricostruire un sistema di governance, competenze e strumenti che sia in grado di ridefinire lo spazio per l'intervento pubblico nei settori strategici per la competitività garantendo selettività degli interventi e stabilità delle politiche. Quindi un ruolo dello Stato differente da come lo sta interpretando il Governo Meloni il cui programma di privatizzazioni è una scelta discutibile e totalmente slegata da qualunque visione industriale. Serve solo per fare cassa e va contrastato con forza. Bisogna andare in una direzione totalmente diversa, definendo una serie di missioni strategiche, razionalizzando il sistema delle partecipate e istituendo una Agenzia per coordinarle;
il quarto e ultimo versante riguarda le risorse da mettere in campo. Quelle pubbliche, innanzitutto, indirizzando verso le nuove politiche industriali le risorse liberate dalla riduzione dai sussidi ambientalmente dannosi e dalla riorganizzazione degli incentivi per le imprese. Quelle private, mobilitando verso l'economia reale una parte dei 1.200 miliardi fermi sui conti correnti delle famiglie e una quota maggiore dei 300 miliardi gestiti da Fondi pensione, fondazioni di origine bancaria, casse privatizzate dei liberi professionisti. Come già ribadito va garantita però la selettività degli interventi riorganizzando il sistema di incentivazione pubblica per missioni in cui siano chiaramente identificati intersezioni con gli strumenti europei di politica industriale (aiuti di Stato, IPCEI, Horizon Europe), obiettivi, milestone e target da raggiungere, condizionandone l'erogazione all'impegno da parte delle imprese beneficiarie del rispetto di condizionalità orizzontali (valide per tutte le forme di incentivo) legate al rispetto dei contratti di lavoro, della condizioni di sicurezza del lavoro, del rispetto dei principi di parità di genere e di non discriminazione e verticali legati al comportamento specifico che si intende sostenere (di natura settoriale, territoriale o tecnologica). Va introdotto altresì il tema della sostenibilità con l'introduzione del vincolo per le risorse pubbliche di sostenere progetti coerenti con la tassonomia europea sugli investimenti sostenibili e di valutazione della DNSH (Do No Significant Harm) e va sostenuta la compartecipazione dei finanziamenti pubblici alla ricerca al rischio di impresa, promuovendo l'utilizzo di modalità di rimborso progressivo delle risorse pubbliche investite (nelle forme tecniche delle royalty, del mantenimento della golden share dei diritti di proprietà industriale, dell'utilizzo di prestiti vincolati al reddito o al contenimento dei prezzi) laddove i progetti finanziati producano risultati positivi in termini di sviluppo di nuovi prodotti sul mercato;
il rilancio delle politiche industriali, infine, deve naturalmente riguardare in primo luogo il Sud in un'ottica di rafforzamento e qualificazione delle politiche di coesione. Non si tratta solo di individuare meccanismi premianti per gli investimenti al Sud ma di costruire una strategia industriale in grado di valorizzare il ruolo del Mezzogiorno nell'ambito nelle nuove filiere di innovazione a partire da quelle legate alla green economy e alla transizione digitale. E deve tenere presente che la fase di attuazione ha storicamente rappresentato il principale fattore di debolezza del nostro sistema di politiche industriali e pertanto appare necessario investire su soggetti, competenze e strumenti che siano in grado di garantire la reale applicazione degli indirizzi di policy. L'esperienza dei Paesi più avanzati evidenzia come lo snodo cruciale sia rappresentato dalla qualificazione delle risorse umane che lavorano all'interno del perimetro pubblico composto da pubblica amministrazione e agenzie specializzate. Nel quadro di una rinnovata politica industriale un ruolo importante può essere svolto dalle aziende a partecipazione pubblica superando l'attuale frammentazione dei modelli di Governance,
impegna il Governo:
1) a farsi promotore, nel corso della nuova legislatura europea, di iniziative volte a mettere in campo ogni politica finalizzata a recuperare competitività, produttività e livelli di reddito dell'Unione europea, per garantire il benessere dei cittadini e il mantenimento del modello sociale europeo, mediante un maggior coordinamento delle politiche industriali, commerciali e fiscali, e la riduzione del divario di innovazione nei settori trainanti, intervenendo sul piano finanziario per rispondere al fabbisogno di investimenti, a tali fini favorire l'emissione di strumenti di debito comuni per progetti europei congiunti e riproponendo il fondo Sure, sperimentato durante la pandemia per sostenere l'occupazione, finalizzato ad un programma europeo di aggiornamento delle competenze dei lavoratori e di sostegno temporaneo al reddito per i lavoratori coinvolti nelle due transizioni;
2) a promuovere la partecipazione delle imprese italiane – anche le PMI – alla creazione delle nuove catene del valore europee promosse dalla Commissione nell'ambito degli IPCEI (Important projects of common european interest);
3) ad allineare la politica industriale italiana agli obiettivi europei, promuovendo una visione continentale che stimoli il rafforzamento e l'integrazione tra imprese transfrontaliere;
4) ad adottare iniziative volte a istituire un Fondo nazionale con una dotazione di almeno 5 miliardi annui fino al 2035 per accompagnare e sostenere l'industria manifatturiera nella trasformazione digitale e nella conversione ecologica, cercando di legare in modo sinergico le due transizioni a partire dai settori Hard to Abate e dell'Automotive;
5) a favorire la digitalizzazione e l'autonomia energetica delle PMI;
6) ad adottare iniziative volte a dare concreto sostegno al tessuto delle PMI, prevedendo agevolazioni per investimenti in Intelligenza artificiale, al fine di far crescere e maturare dei soggetti nazionali in grado di competere in un settore per definizione globalizzato, prevedendo altresì per PMI e start-up un accesso privilegiato alla futura rete delle «fabbriche di intelligenza artificiale», ecosistemi costruiti attorno ai supercomputer pubblici europei, cui verranno destinati talenti e risorse tecnologiche, beneficando di dati, algoritmi e di potenza di calcolo difficilmente reperibili altrove;
7) ad adottare iniziative volte a istituire un tavolo istituzionale con il coinvolgimento delle parti sociali per una valutazione generale del fenomeno dell'IA sul lavoro e sul suo impatto sulla trasformazione dei modelli organizzativi, sulle professioni, sulla formazione, su salario e durata della prestazione lavorativa, anche rispetto al ruolo della contrattazione collettiva;
8) ad adottare iniziative volte ad accrescere l'investimento nel capitale umano per recuperare il ritardo nelle competenze digitali attraverso un piano di azione che assicuri la formazione delle competenze per la transizione digitale ed ecologica, e promuova la crescita delle Startup e delle imprese che offrono servizi innovativi che utilizzano l'intelligenza artificiale;
9) a coordinare le imprese partecipate dallo Stato e definire missioni strategiche orientate a promuovere l'innovazione tecnologica e lo sviluppo inclusivo e sostenibile del Paese;
10) a sviluppare sinergie nei centri di innovazione e potenziare le strutture di trasferimento tecnologico nel Mezzogiorno;
11) ad adottare iniziative volte a potenziare una strumentazione di politica industriale sostenibile e resiliente che incentivi la cooperazione fra Stato e imprese nella realizzazione di progetti e nella produzione di beni comuni; sviluppare l'economia Green come una grande vocazione industriale per il Mezzogiorno;
12) ad adottare iniziative, anche di carattere normativo, volte a riformare il quadro del sistema di incentivazione legandolo a quattro principi:
a) selettività degli interventi: il sistema di incentivazione pubblica va riorganizzato per missioni in cui siano chiaramente identificati intersezioni con gli strumenti europei di politica industriale (aiuti di Stato, IPCEI, Horizon Europe), obiettivi, milestone e target da raggiungere;
b) condizionalità: l'erogazione di risorse pubbliche, sia nella forma di agevolazione fiscale che nelle forme di grant o loan, deve essere condizionata all'impegno da parte delle imprese beneficiarie del rispetto di condizionalità orizzontali (valide per tutte le forme di incentivo) legate al rispetto dei contratti di lavoro, della condizioni di sicurezza del lavoro, del rispetto dei principi di parità di genere e di non discriminazione e verticali legati al comportamento specifico che si intende sostenere (di natura settoriale, territoriale o tecnologica);
c) sostenibilità: introduzione del vincolo per le risorse pubbliche di sostenere progetti coerenti con la tassonomia europea sugli investimenti sostenibili e di valutazione della DNSH (Do No Significant Harm);
d) compartecipazione dei finanziamenti pubblici alla ricerca al rischio di impresa promuovendo l'utilizzo di modalità di rimborso progressivo delle risorse pubbliche investite (nelle forme tecniche delle royalty, del mantenimento della golden share dei diritti di proprietà industriale, dell'utilizzo di prestiti vincolati al reddito o al contenimento dei prezzi) laddove i progetti finanziati producano risultati positivi in termini di sviluppo di nuovi prodotti sul mercato.
Seduta del 9 dicembre 2024
Intervento in discussione generale di Christian Diego Di Sanzo