Data: 
Venerdì, 6 Marzo, 2015
Nome: 
Paolo Petrini

A.C. 2844-A

Signor Presidente, signor Viceministro, colleghi, le disposizioni di maggiore importanza di questo provvedimento riguardano proprio le banche popolari, le quali, come si legge nel provvedimento, se detentrici di un attivo consolidato, vale a dire calcolato a livello di gruppo, superiore a 8 miliardi di euro dovranno – tempo un anno e mezzo – scegliere tra ridurre l'attivo entro il limite degli 8 miliardi, trasformarsi in società per azioni ordinarie e abbandonando il voto capitario, oppure andare in liquidazione. Nel caso in cui l'assemblea dei soci rimanga inerte, non conformandosi alla legge, la Banca d'Italia si attiverà per ottenere la revoca della licenza bancaria. 
Una riforma, questa, che non è certo una sorpresa. Da tempo Banca d'Italia, Fondo monetario internazionale e Commissione europea ne auspicavano il varo e, del resto, già da tempo il Governo e la maggioranza ne annunciavano il lavoro in tal senso. Lo scopo è quello di rendere le banche popolari contendibili, a vantaggio della trasparenza del sistema bancario e di una maggiore credibilità agli occhi degli investitori internazionali. Infatti, i molteplici scandali legati a questi istituti hanno sempre tenuto lontano gli investitori da questo genere di banche e dalla loro governance opaca. Questo ha zavorrato fortemente il valore delle loro azioni ed è per questo che, appena la notizia del decreto è giunta ai mercati, il prezzo delle loro azioni è salito velocemente. 
Il principale effetto atteso del decreto-legge è che questo cambiamento metta in condizioni le maggiori banche popolari di aumentare il loro capitale, in misura adeguata e nei tempi brevi, che le diverse circostanze possono esigere. Prima, ogni cento euro che le banche prestavano, due euro e mezzo venivano messi a patrimonio. Oggi questa cifra è aumentata di più di tre volte. Il mondo è cambiato radicalmente da questo punto di vista. 
Ma questa è una riforma che non va valutata solo per quelli che sono i dati di contesto contingenti, ma per il cambiamento sistemico che introduce nello scenario che abbiamo di fronte, perché certamente è necessario valutare la qualità del credito erogato, la capacità di fare fronte alla quantità sempre maggiore di partite deteriorate e alla redditività insostenibilmente bassa. L'intervento proposto dal Governo lascia, infatti, maggiore spazio sia alla competizione, in maniera tale che le risorse non rimangano alle banche inefficienti, costringendole a cambiare o a morire, perché è da questo che dipenderà una sufficiente capacità di erogare credito a imprese e famiglie in maniera sostenibile e duratura, sia a una migliore corporate governance, in modo tale che in presenza di una cattiva gestione sia facile la sostituzione tempestiva di manager inefficienti, mettendo fine a un aspetto risultante ormai curioso per banche di così rilevanti dimensioni: esercitare il controllo senza un impegno economico sostanziale. 
Fino ad oggi in queste banche abbiamo potuto rilevare come la scarsa efficienza decisionale può danneggiare tutti, tranne i suoi dirigenti. 
Certo, questo, come abbiamo appreso dalle cronache degli ultimi anni, può accadere anche nelle società di capitali, in particolare in quelle società dove vi sono i patti di sindacato, ma dire questo non deve servire a lasciare tutto com’è, deve spingerci ad andare oltre e ad intervenire, piuttosto che fermarci. È difficile non prendere atto del fatto che la struttura societaria delle popolari e la governance associata possano avere ricadute negative sulla qualità degli assetti di governo e sulla capacità di rafforzamento patrimoniale, soprattutto nello scenario dell'unione bancaria e del supervisore unico. Il modello più coerente per banche di grandi dimensioni, come quelle individuate da questo provvedimento, è senza dubbio quello della società per azioni. La trasformazione in Spa rende evidentemente queste banche meno vulnerabili alle interferenze dei politici, dei dipendenti, dei pensionati e di altri soggetti locali, che perseguono interessi legittimi, ma spesso confliggenti. I profili di credito delle popolari si sono deteriorati rapidamente negli ultimi anni e la loro redditività ha sofferto e le loro farraginose strutture decisionali hanno spesso ritardato le necessarie misure di ristrutturazione e di rafforzamento del capitale. Gli interventi di Banca d'Italia, finalizzati a stimolare in questo senso l'azione di queste banche, sono stati numerosissimi. Noi siamo convinti che la trasformazione in Spa, combinata con una base azionaria diffusa, può facilitare un cambio di controllo e semplificare un consolidamento che risulta di sempre maggiore necessità per banche di queste dimensioni, visti i costi che devono sopportare per adeguare comportamenti, processi produttivi o prodotti a quanto prescritto dalle norme. Le stesse popolari saranno fortemente tentate di fare aggregazioni tra loro, per arrivare al giorno della trasformazione in Spa con le spalle più larghe ed essere meno facilmente comprabili. Una struttura in definitiva più adatta ad affrancarsi dalle difficoltà nel recuperare una redditività strutturale, coprendo il bisogno di raggiungere dimensioni di scala più ampie. Il mio punto di vista si basa su una circostanza assai banale e sotto gli occhi di tutti: le banche popolari semplicemente non esistono, o meglio non esiste nell'intero Paese un solo caso di banca popolare rilevante la cui operatività sia in qualche modo distinguibile da quella di una qualsiasi banca commerciale costituita nella forma di società per azioni. Identici i prodotti, identici i mercati, identici i clienti, identici i rischi. E dunque non vi è alcun motivo ragionevole per consegnare la governance di una buona fetta del mercato creditizio a cacicchi locali, che a volte sono politici, a volte associativi e che albergano incontrastati in tutte le assemblee popolari. 
Fatta la debita premessa, vorrei ricostruire molto sinteticamente un po’ la storia di questo animale mitologico, idealmente socialista e praticamente capitalista. La banca popolare affonda le proprie radici nella tradizione cooperativistica di matrice anglosassone e nell'intuizione premarxista che la condivisione della proprietà dell'impresa tra gli operai potesse essere un viatico per il miglioramento delle condizioni di lavoro. In Italia il modello si sviluppa in maniera inattesa e in misura rilevantissima, anche al di fuori dell'ambiente di origine. Alle cooperative socialiste si contrappone l'associazionismo cattolico, che individua nel modello mutualistico l'antidoto a quella che chiamavano la deriva rossa e ne fa cavallo di battaglia proprio nel settore del credito. Sin dall'inizio, le forme sono più o meno le stesse in tutto il Paese: associazioni di agricoltori, artigiani e notabilato, ispirati all'attivismo di persone come Luzzatti. Promuovono la costituzione delle cooperative per l'erogazione del credito agli stessi soci. La particolare forma di governance, basata sul voto capitario è la naturale conseguenza di quel modello, nonché, sin dal primo vagito, lo strumento per mantenere il controllo degli istituti nelle mani dei promotori. Questo ultimo aspetto è di fondamentale importanza. Se, da un lato, il principio «one head, one vote» ha un sapore evidentemente democratico, la storia dei vertici delle banche cooperative è costellata da vere e proprie dinastie. E non uso a caso questo termine, dinastie, visto che abbiamo casi di passaggio di padre in figlio.  Dinastie che si perpetuano per decenni grazie all'emersione, appunto, di personalità capaci di gestire il consenso. Lo sviluppo del sistema creditizio italiano determina, in seguito, una duplicità di modelli: alle banche popolari propriamente dette si affiancano le casse rurali ed artigiane. Mentre queste ultime rimangono fedeli alle radici mutualistiche e si mantengono legate a un territorio che spesso, sul modello delle raiffeisen tedesche, non supera il comune o la provincia, le prime, le banche popolari, si espandono rapidamente e somigliano sempre di più alle banche ordinarie. 
Con il decreto legislativo n. 385 del 1993, noto anche come Testo unico bancario, il fenomeno è consacrato dalla legge e, mentre alle banche di credito cooperativo, nuova etichetta delle vecchie casse rurali, è fatto divieto di operare al di fuori della propria zona di competenza ed è fatto obbligo di mantenere un'operatività prevalente nei confronti dei soci, alle banche popolari è consentita la più ampia libertà. 
Nel giro di qualche anno, la totalità delle banche popolari acquisisce partecipazioni all'estero, si costituisce nella forma di gruppo bancario, include tra le società controllate almeno una società prodotto, factoring, leasing, assicurative, online, banche private o reti di promotori, investe il proprio portafoglio in strumenti finanziari più sofisticati. A fine 2014, tra le prime dieci banche italiane per patrimonio, cinque sono banche popolari. 
Ma le similitudini con le banche ordinarie non si limitano al business: quasi tutte le banche popolari più importanti sono protagoniste delle cronache giudiziarie, a dimostrazione che essere cooperativi non vuole dire necessariamente essere virtuosi, e nessuna di esse si distingue per una particolare avversione al rischio. Delle nove banche italiane bocciate negli stress test, sette sono banche popolari. 
Nonostante le chiacchiere sul rapporto banca-territorio, dunque, per vizi e per virtù le banche popolari sono in tutto e per tutto assimilabili alle Spa, e non vi è alcun serio fattore tecnico che giustifichi la difesa del voto capitario in assenza del contrappeso dei limiti all'operatività. Dirò di più: la sopravvivenza del voto capitario nelle banche popolari mette fuori dalla logica le norme che disciplinano le BCC e che, giustamente, ne limitano la crescita dimensionale, per preservarne la vicinanza operativa al socio-cliente, e raggiungere, così, soggetti altrimenti esclusi dal circuito del credito, perché poco interessanti per i grandi istituti. 
A questo proposito, ricordo che le BCC stanno elaborando una loro riforma, che dovrebbe soprattutto favorire le aggregazioni e le associazioni tra banche, per creare istituti di maggiori dimensioni o reti di banche più integrate, preservando, naturalmente, il carattere operativo e rendendole più simili ai loro corrispondenti europei. 
Sarebbe tutt'al più consigliabile, ove si volesse completare la pulizia di questo quadro e ripristinare, una volta per tutte, l'endiadi che esiste tra società cooperativa, voto capitario, operatività e dimensione limitata (società per azioni, invece, uguale a voto proporzionato al capitale e operatività a dimensione libera), l'introduzione, in una prossima riforma, di una trasformazione in BCC delle micro popolari e delle micro Spa, vale a dire di quegli istituti che, pur non essendo BCC, operano, di fatto, come tali. 
Un Paese, il nostro, in cui, nonostante le riforme, continuano a prosperare pochi grandi potentati economici, uniti in un abbraccio con gli amministratori pubblici che rischia di stritolare la parte vitale e competitiva dell'economia. Ma è tutto il capitalismo di relazione quello che occorre superare, un sistema che si limita ad andare a caccia di rendite di posizione, che si basa sui privilegi piuttosto che sui meriti, e aggrava le disuguaglianze, rende la società chiusa, statica, poco aperta all'innovazione; insomma, un freno. 
Solo con più competitività e maggiore apertura ai mercati si può individuare una spinta per la crescita e migliorare il benessere del consumatore. Per fare questo, è utile salvaguardare il fenomeno cooperativo, che ha prodotto molti buoni risultati in Italia e in giro per il mondo, ma, come al solito, l'ideale sarebbe essere capaci di reprimerne, però, gli abusi. 
Sono personalmente molto d'accordo con l'Antitrust: va realizzato un rafforzamento della separazione tra fondazione e banca conferitaria, perché anche questo è un altro ambito dove occorre intervenire, estendendo il divieto di tenere partecipazioni di controllo in società bancarie, anche nei casi in cui il controllo è esercitato, di fatto, congiuntamente ad altri azionisti. Sono certamente necessari anche altri interventi per fare sì che l'erogazione del credito riprenda in maniera vitale in Italia, prima di tutto la costituzione di una bad bank con l'obiettivo non di salvare le banche, ma anche di favorire la crescita, favorendo un'accelerazione nell'erogazione del credito. Non sono solo le popolari. È chiaro, l'ho già detto, da Siena alle Marche, da Ferrara a Genova passando per Spoleto, ci sono quasi sempre élite locali, per le quali le fedeltà interne, il credito concesso sulla base di un'amicizia, il controllo in una cerchia sulle poltrone e sui bilanci prevalgono su tutto. Questi valori dei circoli chiusi troppo spesso hanno avuto la meglio sulla logica economica, sul buonsenso, sull'interesse collettivo e sulla trasparenza. Oggi non basta più avere un pezzo di terra, la benevolenza del sindaco e la confidenza con il direttore della banca. Il mondo è cambiato e rappresentare ancora un piccolo e perfetto mondo antico sotto attacco di speculatori con denti aguzzi può funzionare per strappare l'applauso di persone spiazzate dalla crisi o disorientate dal cambiamento, ma non offre nessuna soluzione concreta: non ci aiuta ad affrontare una realtà sempre più complessa e complicata. 
Ricorderete tutti, colleghi, un'immagine ricorrente in quella terza Italia così mirabilmente descritta da De Rita, e cioè la presenza nei giardini e nelle villette di numerosi imprenditori, nati a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, di Biancaneve e dei sette nani. Non vorrei che, oggi che i nanetti nei giardini e nelle loro villette quegli imprenditori li hanno portati, qualcuno proponga di sostituirli con la fata turchina.