La Camera,
premesso che:
secondo quanto emerge dalle recenti tabelle di Eurostat, nel 2024, nel nostro Paese il 9 per cento dei lavoratori impiegati a tempo pieno sono a rischio povertà, con un reddito inferiore al 60 per cento di quello mediano nazionale al netto dei trasferimenti sociali, mentre, se si considerano i lavoratori di almeno 18 anni occupati per almeno la metà dell'anno (sia full time che part time) la percentuale arriva al 10,2 per cento. In entrambi i casi, si registra un netto peggioramento rispetto all'anno precedente;
la povertà lavorativa colpisce soprattutto i lavoratori indipendenti, tra i quali il 17,2 per cento ha redditi inferiori al 60 per cento di quello mediano nazionale, contro il 15,8 per cento nel 2023 e i giovani tra i 16 e i 29 anni, tra cui risultano poveri 1'11,8 per cento degli occupati, a fronte del 9,3 per cento dei lavoratori nella fascia di età tra i 55 e i 64 anni;
tra i fattori che maggiormente incidono sulla condizione di povertà dei lavoratori vi è senz'altro il livello di istruzione, tanto che tra i lavoratori che hanno fatto la sola scuola dell'obbligo si registra un 18,2 per cento di occupati poveri (era il 17,7 per cento del 2023) mentre la percentuale crolla tra i lavoratori laureati, tra i quali solo il 4,5 per cento risulta con un reddito inferiore al 60 per cento di quello mediano nazionale, anche se con un notevole peggioramento rispetto al 3,6 per cento del 2023;
parallelamente, dalle medesime tabelle Eurostat emerge che nel 2024 è tornato ad allargarsi il divario tra chi è in una situazione di indigenza e chi è più benestante, visto che il primo decile delle persone sulla base dei redditi può contare su una quota del reddito nazionale equivalente ad appena il 2,5 per cento, in calo rispetto al 2,7 per cento del 2023, mentre il decile più ricco può contare su una quota del reddito nazionale pari al 24,8 per cento, in aumento rispetto al 2023;
numeri negativi che confermano quanto già emerso nel Rapporto mondiale sui salari 2024-2025 dell'Oil, secondo il quale i salari reali in Italia sono diminuiti nel 2022 e 2023, tornando a crescere solo nel 2024 senza, tuttavia, compensare le perdite subite durante il periodo di alta inflazione e, a differenza della maggior parte dei paesi del G20, si conferma una dinamica salariale negativa nel lungo periodo, con salari reali inferiori a quelli del 2008;
tra i pochi dati positivi spicca quello relativo alla quota della deprivazione materiale – ovvero l'incapacità di permettersi una serie di beni, servizi o attività sociali specifici essenziali per una qualità di vita adeguata –, che nel nostro Paese è scesa all'8,5 per cento della popolazione contro il 9,8 per cento del 2023 e che coinvolge comunque circa 5 milioni di persone;
valori che complessivamente si innestano su una condizione salariale già critica per il nostro Paese, basti considerate che l'Italia è l'unico Paese dell'area Ocse nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito (-2,9 per cento), mentre in Germania è cresciuto del 33,7 per cento e in Francia del 31,1 per cento. Si tratta di un andamento composto, infatti nella decade 1990-2000 e in quella 2000-2010 i salari in Italia sono cresciuti, seppure con una dinamica piatta, rispettivamente dello 0,7 per cento e del 5,2 per cento. L'ultima decade 2010-2020 è stata quella maggiormente negativa con una caduta del -8,3 per cento. In queste tre decadi è aumentato il divario tra la crescita media dei salari nei Paesi Ocse e la crescita dei salari in Italia progressivamente dal -14,6 per cento (1990-2000), al -15,1 per cento (2000-2010) e, infine, al -19,6 per cento (2010-2020);
una fotografia davvero sconfortante e in palese contrasto con le finalità enunciate dal primo comma dell'articolo 36 della Costituzione: «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa»;
principi che ritroviamo sviluppati e ribaditi nel preambolo della direttiva (UE) 2022/2041 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa a salari minimi adeguati nell'Unione europea, nel quale si ricorda che la Carta europea sociale (Esc) «Riconosce il diritto di tutti i lavoratori a un'equa remunerazione sufficiente per un tenore di vita dignitoso per sé e per le proprie famiglie. Riconosce inoltre il ruolo dei contratti collettivi liberamente conclusi, nonché dei meccanismi legali di fissazione del salario minimo, per garantire l'effettivo esercizio di tale diritto, il diritto di tutti i lavoratori e datori di lavoro di organizzarsi in organizzazioni locali, nazionali e internazionali per la protezione dei loro interessi economici e sociali e il diritto alla contrattazione collettiva.». O, ancora, quando si ribadisce il principio in base al quale «Migliori condizioni di vita e di lavoro, anche grazie a salari minimi adeguati, vanno a beneficio dei lavoratori e delle imprese dell'Unione, nonché della società e dell'economia in generale, e sono un prerequisito per il conseguimento di una crescita equa, inclusiva e sostenibile. Affrontare le grandi differenze nella copertura e nell'adeguatezza della tutela del salario minimo contribuisce a migliorare l'equità del mercato del lavoro dell'Unione, a prevenire e ridurre le disparità salariali e sociali e a promuovere il progresso economico e sociale e la convergenza verso l'alto»;
ragioni di carattere economico generale dovrebbero altresì indurre a favorire una diversa distribuzione dei redditi e un poderoso recupero di potere d'acquisto dei salari nel nostro Paese, basti pensare al forte ridimensionamento delle prospettive di crescita del Pil reale ammesso dallo stesso Governo, cui potrebbero sommarsi gli ulteriori effetti negativi innescati dalla «guerra» dei dazi decisa dalla nuova amministrazione americana;
per far fronte alla possibile contrazione dell'export a seguito della «guerra» dei dazi, andrebbe favorita la domanda interna, operando una netta inversione di tendenza rispetto alle ricette adottate a seguito della crisi dei mercati finanziari del 2010, improntate alla contrazione dei bilanci pubblici e alla compressione dei salari, quale fattore concorrenziale nei confronti degli altri paesi dell'Unione;
anche i dati del mercato del lavoro, per quanto evidenzino la prosecuzione di dati positivi per quanto concerne il numero degli occupati e del tasso di occupazione totale, ci dicono che questi aumenti di occupazione sono in larga parte concentrati in settori a bassa produttività – basti pensare che la produzione industriale italiana registra in maniera ininterrotta una flessione continua ormai da ben 25 mesi – e vedono un incremento più marcato, solo parzialmente spiegato dalle dinamiche demografiche, nella fascia di età medio-alta, anche come conseguenza delle continue misure, adottate con le tre leggi di bilancio del Governo Meloni, che hanno di fatto cancellato ogni forma di flessibilità pensionistica;
ben altre misure andrebbero approntate per migliorare la condizione economica di milioni di lavoratori che non possono contare su salari dignitosi, come l'introduzione del salario minimo e una norma che riconosca la reale rappresentatività delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro e la conseguente estensione erga omnes dei contratti stipulati dalle medesime organizzazioni;
anziché portare avanti politiche per rafforzare i diritti e la condizione economica dei lavoratori, il Governo prosegue con una strategia di precarizzazione del mercato del lavoro. Dapprima con la reintroduzione dei voucher lavoro, poi con la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato e poi con la somministrazione. Misure che colpiranno soprattutto i giovani e le donne, contribuendo a rendere sempre più incerto il futuro di tanti lavoratori, precarizzandone non solo la condizione economica, ma anche quella esistenziale;
peraltro, come è stato autorevolmente ricordato dal Capo dello Stato, i bassi livelli salariali e la diffusione dei contratti precari rappresentano il principale disincentivo per i tanti giovani, anche altamente qualificati, che ogni anno lasciano il nostro Paese in cerca di migliori condizioni lavorative e del riconoscimento della loro professionalità. Una perdita netta che ogni anno impoverisce il nostro tessuto sociale ed economico e che contribuisce ad alimentare il già grave bilancio demografico;
parimenti, non sono state adottate nessuna delle misure alternative all'introduzione anche nel nostro Paese del salario minimo legale, che pure maggioranza e Governo hanno formulato nel corso degli ultimi due anni, prova ne è la sorte del disegno di legge delega al Governo in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva nonché di procedure di controllo e informazione (atto Senato n. 957);
nel pieno rispetto del ruolo della contrattazione collettiva e della tradizione delle relazioni industriali del nostro Paese, il riferimento per la definizione della retribuzione applicabile ai lavoratori del settore privato dovrà coincidere con il valore del trattamento economico complessivo stabilito dal contratto collettivo nazionale di lavoro stipulato dalle associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, prevedendosi altresì una soglia minima, definita per legge, al di sotto del quale neppure il minimo tabellare previsto da questi contratti possa andare;
corollario fondamentale per delineare un quadro certo di regole in materia di individuazione dei livelli retributivi, in coerenza con i princìpi costituzionali e comunitari, è quello legato alla definizione e alla disciplina della misurazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali e datoriali, scongiurando il dumping salariale generato dai cosiddetti «contratti pirata»;
secondo l'ultimo report del Cnel, al 31 dicembre 2024 risulta ulteriormente cresciuto il numero dei contratti collettivi nazionali di lavoro per i dipendenti del settore privato e del settore pubblico depositati al Cnel, che ormai ha raggiunto il numero di 1.037, di cui solo poche decine riguardano il 90 per cento dei lavoratori. Di questi, ne risultano scaduti il 62 per cento, coinvolgendo il 44 per cento dei lavoratori dipendenti,
impegna il Governo:
1) ad adottare ogni iniziativa utile, anche di carattere normativo, finalizzata al riconoscimento a tutti i lavoratori e le lavoratrici di ogni settore di un complessivo trattamento economico non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, da applicare a tutti i lavoratori del settore di riferimento, ovunque impiegati nel territorio nazionale, prevedendo in ogni caso che, anche alla luce dei parametri europei e del dettato costituzionale, il trattamento minimo tabellare corrisposto ai lavoratori non possa essere inferiore a 9 euro all'ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali, da, aggiornare periodicamente in ragione del potere d'acquisto e del costo della vita;
2) ad adottare iniziative normative al fine di introdurre chiare disposizioni volte ad assicurare che l'applicazione dei contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale sia condizione per poter intrattenere rapporti economici con le pubbliche amministrazioni, con gli organi dello Stato e con gli organismi di diritto pubblico, nonché per accedere ai benefici di legge previsti dal nostro ordinamento;
3) ad adottare iniziative, anche di carattere normativo, volte a definire misure che assicurino il diritto al risarcimento e la protezione contro trattamenti o conseguenze sfavorevoli sul piano salariale, nonché per l'applicazione di appropriate sanzioni in caso di violazioni dei diritti e degli obblighi in materia di retribuzioni;
4) a favorire, per quanto di competenza, la definizione di una disciplina legislativa della misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali e datoriali;
5) ad avviare un concreto e tempestivo confronto con le parti sociali realmente rappresentative, volto a definire una nuova strategia in materia di lavoro nel nostro Paese, anche attraverso la realizzazione di un piano straordinario pluriennale per il lavoro, che metta al centro la buona e stabile occupazione, il contrasto a ogni forma di precarietà attraverso una vera e propria «bonifica» normativa, così come la diffusione del part-time involontario e di quello fittizio, nonché per l'adozione di iniziative di competenza volte a monitorare e rafforzare le misure di contrasto delle forme di penalizzazione del lavoro delle donne e di divario retributivo di genere;
6) a sostenere, per quanto di competenza, l'iter di iniziative legislative volte a ridurre l'uso inappropriato di contratti a tempo determinato comunque denominati, riconducendoli alle loro funzioni proprie, e a contrastare la diffusione del part-time involontario, spesso fonte di lavoro grigio, riaffermando la centralità del lavoro a tempo indeterminato a tempo pieno nel nostro ordinamento;
7) ad adottare le opportune iniziative, anche di carattere normativo, per contrastare il fenomeno delle false partite Iva che coinvolgono, in particolare, molti giovani laureati e professionisti, iscritti agli ordini professionali e non, in monocommittenza, il cui rapporto di lavoro è in realtà assimilabile dal punto di vista organizzativo e gerarchico a quello subordinato – senza le corrispondenti tutele – e con retribuzioni che, se parametrate su base oraria, risultano di gran lunga inferiori a quelle auspicabili per il salario minimo;
8) ad adottare iniziative volte a introdurre ovvero a estendere il sostegno economico al reddito, con lo scopo di contrastare la marginalità, garantire la dignità della persona e favorire il pieno sviluppo della persona, la cittadinanza, attraverso l'inclusione sociale, quale misura di contrasto alla disuguaglianza e all'esclusione sociale, nonché quale strumento di rafforzamento delle politiche finalizzate al sostegno economico e all'inserimento sociale dei soggetti maggiormente esposti al rischio di marginalità nella società e nel mercato del lavoro;
9) ad adottare le opportune iniziative di competenza affinché si pervenga a una significativa revisione dei parametri utili alla determinazione dell'indicatore di povertà lavorativa utilizzato dall'Unione europea in particolare estendendo la platea di riferimento a tutti coloro i quali sono occupati almeno una volta in un anno, con l'esclusione di pensionati e studenti, e incrementando in maniera strutturale la ponderazione dei redditi da lavoro dei singoli individui rispetto al reddito equivalente fruibile all'interno del nucleo familiare di appartenenza, nonché tenendo conto anche del disagio abitativo.