Comunicazione del Presidente del Consiglio

25/06/2014

Signora Presidente, onorevoli deputati, ringrazio per l'attestazione di stima preventiva: intanto uno incamera prima, poi... 
  Credo che l'appuntamento europeo di giovedì e venerdì prossimi, al quale l'Italia porterà la propria voce con grande determinazione e convinzione, debba essere inquadrato o inserito in una riflessione che tenga insieme il Consiglio europeo con l'inizio del semestre di Presidenza italiana, che torna a guida del nostro Paese per la prima volta dal 2003. 
  C’è, dunque, da domandarsi che tipo di Italia presentiamo in Europa e che tipo di Europa vogliamo come italiani. Forse in questi anni l'impressione che noi per primi abbiamo dato – noi classe politica, intesa come classe dirigente del Paese – è quella di un'Italia che considera l'Europa come un luogo altro: si va in Europa. Ma noi andiamo in Europa non quando andiamo a Bruxelles o a Ypres o a Strasburgo. Andiamo in Europa quando usciamo la mattina di casa, andiamo in Europa quando camminiamo per le vie delle nostre città, andiamo in Europa quando siamo nelle condizioni di guardarci allo specchio. Questa è l'Europa, non è qualcosa di altro da noi. 
  E forse dovremmo iniziare a dire con maggiore determinazione non ciò che l'Europa ci deve dire o dare, ma ciò che noi stiamo dando e ciò che noi chiediamo all'Europa. L'Europa non è un insieme di richieste alle quali ci accostiamo con spirito preoccupato e con sguardo terrorizzato. L'Europa è ciò che noi saremo in grado di costruire, l'Europa sarà ciò che noi saremo in grado di costruire. 
  E allora vi proporrei questo schema di riflessione: raccontare che Italia presenteremo al vertice del Consiglio europeo di giovedì e venerdì, raccontare come immaginiamo di gestire il semestre europeo a Presidenza italiana e provare a concludere, cercando di proporre ai signori del Parlamento, a voi deputati e deputate, di fare di questa occasione di dibattito un'opportunità perché la politica torni sempre di più in Europa a sentirsi a casa propria e non sia una sorta di impedimento alle decisioni che tecnocrazie e burocrazia prendono per noi. 
  Se questo tema può avere un senso, dobbiamo avere l'onestà intellettuale, tutti, di riconoscerci che, indipendentemente dall'appartenenza politica o dal giudizio delle ultime elezioni, noi portiamo in Europa, giovedì e venerdì prossimo, nel semestre a guida italiana, un'Italia forte. Forte. E non forte per il risultato elettorale di qualcuno e non di altri, non è questo il punto: forte perché c’è un'Italia consapevole delle qualità dei propri imprenditori, delle qualità dei propri lavoratori, delle qualità che comprendono oggi una vasta gamma di italiane e italiani cui forse è mancata, in questi anni, non tanto l'autorevolezza per dire quello che siamo in grado di proporre, ma forse l'autostima per sentirsi protagonisti del processo di unificazione europea. 
  Certo, c’è anche un elemento elettorale che pesa. Oggi in Italia un partito politico è il partito politico che ha preso il maggior numero di voti in tutto il continente, motivo per il quale noi non accettiamo da nessuno lezioni di democrazia o di democraticità, qui come fuori dai confini nazionali. Siamo consapevoli del fatto che, se milioni di persone hanno votato perché l'Europa cambiasse e cambiasse verso, noi oggi abbiamo una responsabilità, non abbiamo un elemento di orgoglio o una medaglia da appuntarci al petto, abbiamo un elemento di responsabilità. Ma la forza del nostro Paese va oltre il risultato dei singoli partiti. È, questo l'obiettivo di partenza, l'idea che l'Italia debba smettere di pensare di vedere nelle istituzioni europee un soggetto in grado di dare un'autorizzazione. L'Europa non è il luogo delle autorizzazioni. Nessuno ci può autorizzare a volersi bene, ad avere autostima, ad avere consapevolezza di quello che l'Italia può fare. Nessuno, al posto nostro, può autorizzarci a fare l'Italia. Se l'Italia fa l'Italia, credo che il processo di unificazione europea possa decisamente cambiare, e in modo molto rapido. Forti delle nostre ricchezze, forti della qualità del nostro lavoro. 
  Qualche giorno fa ho ricevuto a palazzo Chigi uno dei leader di una delle più grandi aziende del mondo, il CEO di General Electric, Jeffrey Immelt, che mi ha fatto un elogio straordinario dell'Italia. Solitamente siamo abituati a pensare: «Avrà fatto un elogio del vino, del cibo, dello stile». No: della qualità dei nostri ingegneri. Della qualità dei nostri ingegneri: talvolta siamo noi che non ci ricordiamo della qualità che siamo in grado di mettere in campo. 
  Bene, se l'Italia è forte di questo, come può presentarsi di fronte al Consiglio europeo senza andare nella solita macchietta per cui l'Italia deve alzare la voce ? Alziamo l'asticella delle ambizioni, più che alzare la voce. Come ci presentiamo ? Ci presentiamo innanzitutto in un luogo che non è Bruxelles, perché questo Consiglio europeo non si tiene soltanto a Bruxelles. Si tiene a Ypres, uno dei luoghi simbolo della prima e della seconda guerra mondiale, il luogo nel quale per primo fu utilizzato il gas, un certo tipo di gas. Il luogo nel quale l'Europa ha visto un conflitto fratricida che ha provocato in quel caso decine di migliaia di morti e in generale milioni di morti. Ci pensavamo in questi giorni, quando con il Governo presentavamo le iniziative per la Grande guerra, per il centenario della Grande guerra, tra cui un concerto del maestro Muti, che voglio ringraziare personalmente. Ci pensavamo in questi giorni, quando la mente tornava alla seconda guerra mondiale, alla guerra mondiale che ha provocato un conflitto anche interno, la guerra civile e la straordinaria forza di resistenza che è stata espressa dal nostro Paese. 
  Ma quei milioni di morti a cosa ci richiamano oggi ? Alla costruzione di una Europa che sia un luogo non semplicemente di pace. Non basta l'idea un po’ stereotipata dell'Europa come un luogo di pace dopo settant'anni ! L'Europa non può essere – ed è bene ricordarselo a Ypres, ed è bene che Ypres sia un simbolo non soltanto per una cerimonia in cui i Capi di Stato e di Governo si tengono per mano –, l'Europa non può semplicemente essere il luogo nel quale si vive di codicilli, si vive di cavilli, si vive di parametri, si vive di vincoli. 
  Trovo simbolico che il primo Consiglio europeo dopo il rinnovo del Parlamento europeo abbia la propria sede in un posto nel quale si è combattuto. È ovviamente un riferimento alle cerimonie che hanno già avuto alcuni momenti di importanza, come l'evento in Normandia al quale ha partecipato il nostro Presidente della Repubblica. Ma è simbolico anche perché il vertice a Ypres, oltre che costituire un elemento di commemorazione, ricorda a noi stessi che cosa può essere l'Europa oggi. Era una frontiera, era una polveriera, era il luogo di una carneficina. Oggi l'Europa non è più questo. Ma l'Europa non può diventare semplicemente la terra di mezzo delle burocrazie, la terra di mezzo dei cavilli, la terra di mezzo delle norme regolamentari che perdono il senso dell'ideale. Quei milioni di giovani non sono morti perché noi ci azzuffassimo intorno ad un parametro. Sono morti perché noi dessimo una prospettiva di orizzonte, di libertà, di pace. 
  E allora l'appuntamento successivo alla cerimonia – sto seguendo il filo logico degli eventi del Consiglio europeo, anzi, più che logico, cronologico –, che è la cena nella quale si discuterà di nomine, deve essere affrontato con questo bagaglio di emozioni, perché l'Europa deve essere anche un bagaglio di emozioni, ma anche di responsabilità. Non possiamo cioè immaginare  che la discussione sui nomi sia semplicemente o una mera presa d'atto di ciò che è accaduto alle elezioni o, viceversa, un tentativo di far finta che non ci sia stato il passaggio in cui i partiti politici europei hanno presentato un loro candidato. Non sto cercando una terza via. Sto dicendo che chi affermasse oggi che, siccome ci sono state le elezioni, e c’è un partito politico, il Partito popolare europeo, che ha preso qualche seggio parlamentare in più, allora il candidato di quel partito deve essere per forza il Presidente della Commissione europea, ridurrebbe il significato delle elezioni europee. E non perché il risultato di quel partito o degli altri non è stato sufficiente ad ottenere la maggioranza dei seggi, ché già questo per il principio democratico sarebbe discutibile: quindi senza un accordo più ampio nessuno un può avere il consenso del Parlamento europeo. Ma perché il voto europeo – spero che ci sia l'occasione di discuterne giovedì sera – è un voto che dovrebbe far riflettere molto di più della semplice indicazione di un Presidente della Commissione. 
  Perdonatemi se sono così sbrigativo, quasi violento nel modo di dirlo, ma chi oggi immagina che il gap di democraticità dentro l'Europa si colma e si recupera semplicemente indicando Juncker o un altro a fare il Presidente della Commissione vive su Marte. Quello che è accaduto in questo passaggio elettorale a livello europeo è molto più significativo e grave di ciò che noi possiamo immaginare. È accaduto che un pezzo intero – ripeto: un pezzo intero – della comunità civile europea non è andato a votare. È accaduto che chi è andato a votare ha spesso espresso un voto profondamente ostile non solo e non tanto all'idea europea, ma al modo con il quale quell'idea è stata esplicitata in questi anni, lottando contro una politica economica che ha visto l'Europa nel suo complesso perdere posizioni nel ranking mondiale – perché possiamo poi discutere su quanto abbiamo perso noi e quanto abbiano perso gli altri, ma l'Europa ha perso posizioni nel suo insieme – e, anche laddove partiti più tradizionali hanno avuto un buon risultato elettorale, a partire da ciò che è accaduto in Italia, quei partiti hanno chiesto un deciso cambio di prospettiva e di direzione alla politica europea. 
  La discussione di giovedì sera sui nomi deve partire da questo giudizio. Deve partire dal fatto che il vulnus che si è creato nelle istituzioni europee si colma soltanto con la politica e che non basta un «copia e incolla» tecnocratico per riuscire a risolvere il problema che l'Europa oggi ha davanti e che o l'Europa ne è consapevole oppure rischiamo di perdere una chance, un'occasione storica. 
  C’è un bellissimo discorso di Alcide De Gasperi all'Assemblea del Consiglio d'Europa del 1951 che ricorda la straordinarietà del momento storico che in quel momento si viveva, rendendo omaggio a chi aveva percorso l'idea europea e, però, invitando ciascuno di noi a investire sul futuro. Bene, allo stesso modo oggi siamo a un bivio – un bivio, da questo punto di vista, molto, molto importante –, e allora non dipende da chi mettiamo a fare il Presidente, sapendo che l'Italia ha lavorato in questi giorni, in queste settimane, perché si affermasse un metodo e pensiamo di poter dire che il metodo è stato un successo anche del nostro Paese. Vale a dire, si è chiesto, prima, di individuare le linee strategiche di sviluppo dell'Europa da qui al 2019, prima dicendo che cosa possiamo fare e cosa non possiamo fare, come impostiamo la macchina, prima di decidere chi guida decidiamo dove andiamo, e poi, dopo, aprire una discussione che non può che essere un accordo complessivo. Tu non puoi immaginare di uscire dicendo: c’è il Presidente della Commissione, ma non sappiamo chi fa l'Alto rappresentante per la politica estera, non sappiamo chi fa il Presidente del Consiglio, non sappiamo chi è il Presidente del Parlamento e non sappiano chi sarà il Presidente dell'Eurogruppo. È impossibile immaginare un percorso che privi l'Europa di uno sguardo ampio, di una visione d'insieme. 
  Credo che, da questo punto di vista, il passaggio di giovedì sera sarà particolarmente significativo se le nomine saranno conseguenza delle cose, dei progetti, delle idee, della gente. E allora, da questo punto di vista, entriamo con i piedi nel piatto sul primo nodo di programma che è previsto nella discussione del Consiglio europeo, che è quello relativo all'immigrazione. 
  Noi abbiamo detto, tanti di noi, non tutti noi, in una campagna elettorale che ha visto alcuni gruppi politici caratterizzarsi con prese di posizione al limite della xenofobia – al limite si po’ discutere se «al limite» dalla parte interna o dalla parte esterna, ma comunque davvero profondamente discutibili –, ecco, noi abbiamo detto in campagna elettorale, e lo abbiamo detto come tutte le forze politiche che rappresentano il Governo e come la stragrande maggioranza delle forze politiche che rappresentano questo Paese, che un'Europa che racconta tutto nel dettaglio di come va pescato il tonno o il pesce spada, che spiega al pescatore calabrese che non può intervenire con una determinata tecnica di pesca, ma che poi, quando anziché discutere di pesci, nel mare ci sono i cadaveri, si volta dall'altra parte, questa Europa non è un'Europa degna di chiamarsi Europa di civiltà
  
Noi abbiamo detto questo, e allora non basta avere una moneta in comune, non basta avere un Presidente in comune, non basta avere una fonte di finanziamento in comune: o noi accettiamo l'idea di avere un destino in comune e dei valori in comune, oppure perdiamo non il ruolo dell'Italia in Europa, perdiamo il ruolo dell'Europa davanti a se stessa. 
  Se noi dobbiamo sentirci dire, di fronte a ciò che è accaduto anche in questi mesi in Europa: questo problema non ci riguarda, tenetevi la vostra moneta ma lasciateci i nostri valori, perché il valore di rispetto di una mamma che partorisce e dopo sei ore muore con suo figlio non può essere un'emozione subitanea, per cui il Governo e la Commissione si recano in un'isola e poi, però, soltanto al Governo viene lasciato il compito di affrontare quella vicenda. Se c’è questo atteggiamento, sia chiaro che l'Italia rivendica i suoi valori e chiede, a partire dal vertice di venerdì mattina, che l'operazione Mare Nostrum sia un'operazione inserita nella dinamica di Frontex, anzi di Frontex plus, come viene definita a livello di Commissione europea, chiede che ci sia la sensibilità per andare a intervenire laddove si deve intervenire. 
  Il 96 per cento delle persone che arrivano nel nostro territorio vengono dalla Libia. E allora, sapete, non c’è bisogno che adesso faccia qui l'elenco delle questioni aperte – in queste ore, direi prima ancora che in questi giorni – in Libia, ma è assolutamente centrale il ruolo dell'ONU. La Libia dovrà, dopo le elezioni, richiedere formalmente l'intervento dell'Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite; l'Europa dovrà avere la forza di gestire in modo unitario e condiviso, sapendo che il Mediterraneo, e non soltanto l'est, costituisce uno dei luoghi di frontiera. 
  Anzi, per me il Mediterraneo è più il cuore che non la frontiera e, da questo punto di vista, noi diciamo, con grande determinazione, che, se noi siamo molto rigorosi con gli scafisti o con coloro i quali sono travestiti da scafisti – perché il punto dell'organizzazione criminale che va smantellata è molto più complesso, in alcuni casi, talvolta, anche chi fisicamente conduce la nave è, in qualche modo, individuato dalle organizzazioni criminali in partenza e, quindi, è un ragionamento che va gestito nella sua complessità – e con le organizzazioni criminali, questo richiede una internazionalizzazione dell'intervento umanitario e un investimento molto forte in Frontex come luogo della dignità di una sfida (non trovo parole diverse); naturalmente, la gratitudine va alla nostra Marina, alle donne e agli uomini che lavorano nell'accoglienza alle persone, che di fronte al dolore di queste settimane e di questi mesi hanno vissuto con una professionalità straordinaria, che vorrei tutto il Parlamento ringraziasse dal profondo del cuore.
  Il Consiglio europeo prosegue, vado in ordine, con l'appuntamento sul punto della situazione economica anche alla luce delle raccomandazioni che abbiamo ricevuto il 2 giugno. Siamo molto grati alla Commissione per le raccomandazioni che rivolge ai Paesi membri, specie in questo momento in cui, finalmente, tocca ai Paesi membri dare qualche raccomandazione alla Commissione che verrà, e spiegare alla Commissione che verrà che il percorso che noi immaginiamo è un percorso nel quale il rispetto delle regole per noi non è in discussione. Noi non abbiamo mai messo in discussione il rispetto delle regole; anzi, qualcuno qui dentro sarà triste per questa frase; in molti ci hanno chiesto: cambiamo le regole o, addirittura, violiamole. Noi, come Governo, abbiamo sempre detto che avremmo rispettato le regole, ma c’è modo e modo di affrontare la questione delle regole e il rispetto delle medesime. 
  Mi spiego: ci sono dei profeti e sacerdoti del rigorismo e dell’austerity che ci spiegano, oggi, come sia assolutamente impossibile modificare qualsiasi virgola delle regole del gioco; è un atteggiamento che è comprensibile; che è persino condivisibile, da alcuni, non da tutti. A quegli stessi sacerdoti e profeti, queste vestali del rigorismo austero e tecnocratico, vorrei ricordare sommessamente che quando l'ultima volta l'Italia guidò il semestre di Presidenza europea, era il 2003, due Paesi chiesero di sforare il 3 per cento, lo ripeto, due Paesi, e furono autorizzati: la Germania e la Francia. Si può discutere sul tipo di riforme che hanno fatto la Germania e la Francia; dico, da lettore esterno, che la straordinaria stagione di riforme inaugurata da Schröder in Germania ha consentito alla Germania di affrontare la crisi, oggi, in modo molto più forte di tutti gli altri. 
  Onore al merito, quindi, di chi ha saputo riformare se stesso, in una cornice nella quale la crisi sembrava lontana. Sono affezionato a una frase che dice che la grandezza di Noè è di aver costruito l'arca quando ancora non pioveva; c'era un sole che spaccava le pietre quando Noè iniziò a costruire l'arca, è una frase che mi ha sempre colpito molto. La Germania, nel 2003, ha scelto un pacchetto di riforme molto bello, molto significativo, molto importante, ed è un pacchetto di riforme che è stato implementato e che oggi consente a quel Paese di essere fuori, più degli altri, dalla crisi che noi stiamo vivendo. 
  Ebbene, qual è l'elemento di comunanza, e l'elemento di diversità ? L'elemento di diversità è che noi non chiediamo di violare la regola del 3 per cento, a differenza della Germania, noi non chiediamo di violare la regola del 3 per cento. Come la Germania di allora però, noi vogliamo smettere di vivere l'elenco delle raccomandazioni come una lista della spesa che tutte le volte ci capita fra capo e collo e che sembra essere una sorta di elenco di cose da fare, quasi che questo trasformi l'Europa in una vecchia zia noiosa che ci spiega i compiti da fare e che noi possiamo semplicemente cercare di elencare ed enucleare, facendo poi di volta in volta il meglio che possiamo fare. 
  Ecco perché – inizio a entrare nella seconda parte del ragionamento, vale a dire nel ragionamento che riguarda più il semestre a guida italiana – l'Italia intende presentarsi in questo semestre con un pacchetto unitario di riforme, e l'occasione mi è preziosa anche per poter dire in modo molto sintetico che questo pacchetto di riforme rende giustizia anche di alcune critiche che sono state espresse – comprensibilmente e giustamente, magari – al Governo in questi primi tre mesi, anzi quattro mesi ormai. Si è detto, beh, però manca una cornice complessiva, si va avanti con la riforma del lavoro, con la riforma costituzionale, con le modifiche della pubblica amministrazione, con gli interventi sulla delega fiscale senza un quadro unitario, come se mettessimo dei pezzi del puzzle a caso e non ci fosse invece una cornice, che noi abbiamo molto chiara, ma che, se evidentemente non siamo riusciti a spiegare, è colpa nostra. Io parto dal presupposto che quando un politico non riesce a spiegarsi è sempre colpa sua, chi dice «non mi avete capito» è già fuori dalla politica, perché se i cittadini non ti capiscono è colpa tua, non degli altri. Ora, a dire il vero, i cittadini non è che non ci abbiano proprio capito, anzi forse siamo stati noi a capire loro a questo giro, però se non siamo riusciti a spiegare un orizzonte di insieme vuol dire che la colpa è nostra, me ne assumo la responsabilità. 
  Allora, dico qui che il semestre di Presidenza italiana deve essere l'occasione per un pacchetto di riforme cui darei innanzitutto un riferimento cronologico: ci prendiamo, dopo i primi cento giorni più o meno scoppiettanti, un arco di tempo che sia sufficiente – potremmo definirlo medio periodo in politica più che in economia – di mille giorni, dal 1o settembre al 28 maggio, 1o settembre 2014 – 28 maggio 2017, inseriamo cioè un arco temporale ampio sul quale sfidiamo il Parlamento, perché la nostra legittimazione non deriva dal voto, la nostra legittimazione deriva dal Parlamento, per cui se volete, potete mandarci a casa domani mattina. 
  Il punto è che noi vi proponiamo un arco di tempo quasi triennale nel quale individuare punto per punto – questo sarà il lavoro da fare entro il 1o settembre 2014 – ciò che noi, in modo molto esplicito, proponiamo ai cittadini, non genericamente le riforme, ma come vai a cambiare il fisco, quale tipo di infrastrutture inserisci nel decreto «sblocca Italia» e nell'arco della programmazione triennale, come intervieni, dai diritti all'agricoltura, dalla pubblica amministrazione al welfare, come in questi mille giorni sei nelle condizioni di sfidare, in una logica positiva e propositiva, il Parlamento a migliorare il Paese. 
  Tre anni è un periodo ampio per poter riportare l'Italia a fare l'Italia, per poter consentire all'Italia di non farsi tutte le volte dettare l'agenda da un soggetto esterno – non è mai accaduto magari, ma si è sempre data l'impressione che fosse così – e dire che, se facciamo le riforme, non le facciamo perché ce le chiede qualcuno da fuori, le facciamo perché ne siamo consapevoli noi. Una pubblica amministrazione più semplice non deriva dalla richiesta del Commissario europeo alla semplificazione o alla pubblica amministrazione – non conosco nel dettaglio quale tipo di Commissario europeo, ma sono 28, sicuramente ce ne sarà uno adatto a questo tipo di intervento –, deriva dal fatto che noi vogliamo che i nostri cittadini quando entrano in una pubblica amministrazione abbiano un investimento tecnologico per cui non abbiano – era l'investimento tecnologico che mancava – la necessità di prendere una intera giornata di ferie per fare un certificato. 
  Questa non ci deriva da un «signor no» in Europa. La possibilità di intervenire sul mercato del lavoro che sia il più possibile semplice e che sia il più possibile in grado di dare garanzie anche a chi in questi anni le garanzie non le ha avute, deriva da noi, deriva dal nostro disegno di legge delega, non deriva dalla raccomandazione del Commissario per la UE. Ecco che l'obbiettivo dei mille giorni è questo: mostrare che il puzzle c’è, ma questo non è un problema, e darsi un tempo nel quale le forze politiche avranno la possibilità di sfidare il Governo, se lo vorranno, di incoraggiare il Governo e di incalzare il Governo, ma noi al termine di questi mille giorni, presenteremo un Paese che è un Paese che è in grado di fare quel percorso di riforme che altri hanno fatto – facevo riferimento sempre alla Germania – a partire dal 2003. 
  Questo richiede il cambio di regole economiche in Europa ? No, è evidente però che lo scambio tra il processo di riforme e l'utilizzo di margini di flessibilità che ci sono già contenuti e che sono a disposizione dei Paesi membri è quello che è sempre accaduto. Mi spiego: noi non possiamo continuare a vivere nella logica kafkiana per cui l'Europa è quella istituzione che ti fa la procedura di infrazione perché non hai pagato i debiti alle imprese, quindi non hai saldato i debiti della pubblica amministrazione – corretto – e contemporaneamente ti impedisce, con il Patto di stabilità, di saldare quei debiti perché il percorso per cui contemporaneamente ti chiedo una cosa che ti impedisco di fare assomiglia a un film dell'orrore; non assomiglia a un percorso politico sul quale sfidarsi per cercare di fare ciascuno il meglio di se stesso. 
  Ecco che questo tipo di percorso è il percorso che noi proveremo a portare all'interno del semestre europeo per quello che riguarda noi. Basta questo ? No, no: il lavoro dell'Italia non è semplicemente cambiare l'Italia. Signori deputati, voi rappresentate il Paese che più ha dato al continente europeo in termini di innovazione, credibilità, fiducia. Voi sedete nei banchi in cui generazioni di giganti hanno consentito all'Europa di essere quello che è, e allora non rimpiccioliamo il nostro progetto e la nostra ambizione. Oggi, l'Europa vive, con grande profondità, un dilemma: qual è il suo ruolo nel mondo che cambia ? È, come dice qualcuno, quello di civilizzare la globalizzazione ? È quello di dare gentilezza al mondo ? Oggi l'Europa vive immersa nella noia, nella noia innanzitutto dei cittadini, che la vedono come un insieme di regole, vive nella noia intesa come incapacità di rispondere ai fenomeni di profondo cambiamento che sono in corso nel mondo. È un'Europa che nel tempo dei big data è sommersa dai numeri, ma è priva di anima. Questo tipo di lavoro qui, che è un lavoro innanzitutto culturale, educativo, politico con la «p» maiuscola siamo in grado non di farlo da soli – per carità di Dio, se c’è qualcuno che è in grado di farlo da solo, se lo pensa, auguri e in bocca al lupo – ma siamo in grado di concorrere a questo grande sogno e bisogno, che è quello di riuscire a fare dell'Europa il luogo nel quale si viva la profondità della dimensione politica, e non semplicemente l'angustia di una tecnica algida e priva di emozioni. Questa è la sfida del semestre. Il semestre non è semplicemente convocare un vertice. Da quando poi il Presidente del Consiglio europeo è permanente, è evidente che anche nella formazione dell'agenda è ridotto il ruolo degli Stati membri che svolgono la funzione di guida del semestre. Il semestre è moral suasion, è capacità di individuare un orizzonte, è desiderio profondo di fare una sfida politica: questo è l'obiettivo al quale vorrei in qualche modo invitarvi ad aiutare, ad aiutare con il vostro dibattito di oggi, con il vostro lavoro, non soltanto dei prossimi sei mesi. L'Europa che civilizza la globalizzazione – come ha scritto qualcuno – ha la necessità di una classe politica parlamentare che provi a raccontare concretamente che tipo di orizzonte politico vuol dare a questo disegno. Naturalmente, il Governo ha anche alcuni compiti: digital bank, 8 luglio, Venezia, tutto il grande tema dell'innovazione, dell'innovazione tecnologica, come l'innovazione tecnologica è la chiave per affrontare, per esempio, la questione della pubblica amministrazione, certo, come l'innovazione tecnologica è la chiave per affrontare la questione energetica. 
  Alcuni tra gli studi più interessanti sottolineano come il termine «energia», oggi, non possa andare disconnesso dal termine «tecnologia». La tecnologia è ciò che trasforma la scarsità in abbondanza. Se questo è, siamo nelle condizioni di fare dell'appuntamento sull'ICT un grande momento di confronto con società civile, opinion maker, classe politica, partiti, soggetti sociali rappresentativi ? E farlo a Venezia ha un valore doppio, perché la bellezza e la grandezza di quella città, che è, in qualche modo, specchio e indice di una bellezza del Paese, evoca ed educa all'investimento nell'innovazione tecnologica come chiave di lettura del semestre italiano. 
  Il tema della politica estera in questi mesi, che, naturalmente, immediatamente, ci fa correre alle questioni che vanno ai nostri confini, a partire dalla questione tra la Russia e l'Ucraina, su cui le nostre posizioni sono quelle che conoscete, che conosciamo. Ma anche la questione di politica estera che riguarda l'Europa intesa come soggetto protagonista di politiche attive. 
  L'Africa la affrontiamo come luogo, nella sua complessità e difficoltà, con cui stabilire un rapporto privilegiato non solo per le questioni energetiche, ma anche per le questioni di sviluppo ? Noi pensiamo che l'Africa sia un posto dal quale difenderci, e allora si immagina di mettere le barriere, convinti, come sono alcuni, che possano esistere barriere a fenomeni migratori come quelli che stiamo vivendo, o è il luogo nel quale si va a investire sullo sviluppo credibile, possibile, realizzabile ? 
  E ancora, il rapporto con l'Asia, il vertice ASEM di Milano del 16 e 17 ottobre: parteciperanno i più importanti e significativi esponenti del mondo asiatico. E questo che cos’è ? È semplicemente il luogo nel quale andare a vendere qualche prodotto delmade in Italy (che non sottovaluterei, perché il mercato globale che si apre, in particolar modo in alcuni Paesi asiatici, è straordinario, è straordinario) ? Ma la Cina può essere, nella terra che ha dato i natali a Marco Polo e a Matteo Ricci, semplicemente un grande mercato dove andare a piazzare i nostri prodotti o, viceversa, una minaccia dalla quale cercare di difendersi, anziché il luogo di un'elaborazione culturale, che consenta all'Italia, appunto, una volta di più, di essere forte nel fare il proprio mestiere ? 
  E ancora, l'appuntamento di New York, dove andremo, come Italia, al vertice delle Nazioni Unite, ma anche con una politica europea rispetto ai temi del climate change, dell'investimento su un ambiente diverso. L'Europa vuole avere la bandiera, anche in vista, poi, dell'appuntamento di Parigi del prossimo anno, di un investimento sulla green economy che non sia semplicemente unospot a parole, ma sia la possibilità di un cambio di paradigma dello sviluppo economico ? 
  E, per concludere, il vertice sul lavoro, che abbiamo spostato: pensavamo di farlo all'inizio del semestre; poi ci abbiamo riflettuto, sia per motivi interni che per motivi esterni. Il motivo interno è che noi speriamo che il Parlamento riesca, entro la fine del semestre – questo è l'auspicio - ad approvare il disegno di legge delega. Noi siamo contenti del decreto che prende il nome del Ministro Poletti e che ha provocato alcuni risultati, anche in questi giorni sottolineati come positivi, nell'aumento delle persone occupate, ma sappiamo che la vera sfida è il disegno di legge delega. Ci piacerebbe che questo Parlamento riuscisse ad approvare il disegno di legge delega, naturalmente apportandovi le modifiche che riterrà opportune e nelle forme che riterrà più corrette, entro la fine dell'anno. Vi è un motivo, però, anche esterno, contemporaneamente: la Garanzia Giovani, questo programma di investimenti contro la disoccupazione giovanile, è appena ai primi passi. Fare l'appuntamento l'11 luglio avrebbe impedito di svolgere una verifica seria, puntuale, sui risultati che la Garanzia Giovani ha avuto, con i suoi 6 miliardi di investimenti fatti dagli Stati europei. È chiaro, però, che già da adesso noi diciamo – lo abbiamo detto, lo diremo anche nel vertice di giovedì – che la Garanzia Giovani non può restare appesa per aria per un periodo transitorio, perché o l'Europa è nelle condizioni di assumere la battaglia contro la disoccupazione, in particolar modo contro la disoccupazione giovanile, come un elemento costitutivo della propria identità, o non ci sarà alcuna stabilità possibile. 
  Mi fa ridere chi dice che viola il Trattato chi parla di crescita: viola il Trattato chi parla solo di Patto di stabilità. Il Trattato ci impone di guardare alla stabilità e alla crescita come elementi che si tengono insieme: non c’è possibile stabilità, se non c’è crescita in Europa e in questi anni le politiche economiche hanno fallito per questo. Si è immaginato di fare dell'Europa soltanto un'Europa di stabilità. La stabilità senza crescita diventa immobilismo. Noi non stiamo violando le regole. Noi stiamo richiamandoci alle regole, quando chiediamo di affrontare il tema della disoccupazione e della crescita economica. 
  Allora io credo che in questi anni – ho finito – si è affidato alla moneta il compito di costruire l'Europa e lo si è fatto senza alcun riferimento critico verso il valore fondamentale delle politiche economiche e finanziarie nella costruzione dei processi d'integrazione. Ma questo ragionamento non basta, non è sufficiente. Non basta avere una moneta unica per condividere un destino insieme. 
  Oggi nella mia città si festeggia il patrono, che è san Giovanni. L'immagine di san Giovanni sta dietro il fiorino. Gli esperti di politica economica sanno che il fiorino è stato la moneta, è stato l'euro dell'epoca, è stato il dollaro dell'epoca. È stato intorno al fiorino che si è costruita una fiorente per l'appunto economia e che ha consentito, però, di far vivere una città non soltanto per gli aspetti di scambi economici, ma che ha consentito di farne vivere il valore culturale. 
  Se non ci fossero stati i finanzieri fiorentini, non ci sarebbe stato Dante Alighieri. Le borse di studio, che hanno finanziato la possibilità per Dante Alighieri di studiare nel complesso di Santa Maria Novella, derivavano da chi ? Da persone benestanti che mettevano i loro averi a disposizione della città per educare i giovani in grado e in difficoltà in quel momento, in grado di farlo ma in difficoltà. Se non ci fosse stata la finanza, a Firenze non ci sarebbe stata la straordinaria storia dell'arte. Le pale d'altare nascono un po’ perché i benestanti fiorentini hanno paura dell'inferno e quindi immaginano che, facendo delle opere d'arte, in qualche modo uno recupera i propri peccati. E credo che rispetto alla finanza di oggi non basterebbero dei musei di arte moderna per far pari con i tanti elementi di colpevolezza che una parte della finanza ha avuto. Però è interessante notare come la finanza non era un elemento ostativo della crescita culturale ed educativa. Anzi, laddove c’è crescita educativa e culturale, c’è un'economia solida. Sono i premi Nobel che lo dicono oggi, in modo molto più serio di come ho fatto io. 
  Eppure il fiorino è dietro all'immagine di San Giovanni e i fiorentini dicono: «san Giovanni non vuole inganni». È un riferimento molto terra terra per dire che, quando si fa un richiamo allo scambio economico, si fa un riferimento ideale e sacro. Ma anche perché la moneta, che aveva l'immagine del figlio di San Giovanni dietro, era una moneta che in qualche modo impediva di violare le regole: quella moneta lì, il fiorino, era l'elemento di garanzia dell'epoca. 
  Oggi noi viviamo un momento nel quale culturalmente ci si apre di fronte un'autostrada, una prateria. Si è nella stragrande maggioranza – lo dimostrano anche le discussioni di questi giorni – convinti che la politica economica e finanziaria, di questi anni, se da un lato ha messo al riparo l'euro da situazioni di difficoltà, non ha consentito all'Europa di crescere e di fortificarsi. Chi oggi facesse finta di non vedere il risultato elettorale, non farebbe politica, perché il risultato elettorale in Europa è il risultato elettorale attraverso cui si è dato un campanello di allarme molto forte alle istituzioni europee. E quindi, chi vuol bene all'Europa, oggi ha il dovere di salvare l'Europa. I conservatori, intesi non come parte politica, ma coloro i quali non vogliono cambiare niente in Europa, devono sapere che con la loro ostilità rischiano di bloccare il processo d'integrazione e di crescita dell'Europa. 
  Allora la sfida nella quale siamo dentro, come Italia che guida il semestre, come Italia forte e serena, si direbbe, se non fosse che era uno slogan che aveva un grande leader socialista di un altro Paese europeo. Insomma, un'Italia che sia nelle condizioni di investire nella politica oggi ha la responsabilità di prendere la moneta, di dire che non vogliamo inganni, che noi rispettiamo le regole e chiediamo che tutti rispettino le regole, ma contemporaneamente di dire che o l'Europa cambia la propria direzione di marcia oppure non esiste possibilità di sviluppo e di crescita, perché senza la diminuzione del numero dei disoccupati, senza la capacità di tornare a creare ricchezza non ci sarà nessuna stabilità. 
  Noi andiamo in l'Europa con questo spirito, con lo spirito quindi di chi non va a chiedere una poltroncina o un premio di consolazione e non va neanche a battere i pugni sul tavolo o ad alzare la voce. Va a cercare di fare politica, e per fare politica ricordiamoci che il contributo che l'Italia può dare, permettetemi di dirlo, è più grande delle paure che in questi anni noi abbiamo avuto. Ecco perché – e ho davvero concluso – l'Italia che è uscita dalla crisi non è tutta l'Italia. L'Italia al massimo è uscita dalla depressione, di natura psicologica prima ancora che di natura economica, ma non è ancora uscita dalla crisi. Potrà uscire dalla crisi se tutti insieme saremo nelle condizioni di restituire un'anima e una dignità al processo di integrazione europea. 
  Pensare che questo lavoro oggi è nelle spalle non di un Governo o di un Parlamento, ma di un popolo – anche di un popolo – del popolo italiano è una responsabilità che credo dovrebbe far tremare le vene e i polsi a tutti e a ciascuno, ma è anche la base perché il nostro dibattito sia sempre più incentrato sui valori veri e non sugli schemi o sulle superficiali osservazioni in cui troppo spesso anche noi ci siamo imbattuti. Buon lavoro allora a tutti noi.